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L'editoriale

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di Maurizio Belpietro

Andrea Tempestini
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Non so se Silvio Berlusconi avrà la forza di portare fino in fondo la promessa di cambiare il mercato del lavoro. Probabilmente no: affrontare una riforma che prevede perfino di rendere praticabile il licenziamento dei fannulloni è un passo che richiede molta determinazione e, soprattutto, una maggioranza solida. Purtroppo, non mi pare che il Cavaliere in questo momento disponga dell'una e dell'altra. Fiaccato dalle inchieste giudiziarie e da un nervosismo preoccupante dentro il Pdl, al massimo conserva  il vigore per schivare i colpi, non credo per assestarne.  Ciò nonostante, se il presidente del Consiglio trovasse il coraggio di tradurre in pratica quanto ha promesso all'Europa nella lettera consegnata mercoledì, per l'Italia sarebbe un gran passo avanti. Ne sono certo: farebbe molto di più per la crescita una norma che sancisse la possibilità di liberarsi di chi prende lo stipendio a sbafo piuttosto di tanti finanziamenti a pioggia a favore delle imprese. Il problema è che per riuscirci il premier dovrebbe essere capace di  «vendere»  la riforma non come una legge che rende più facili i licenziamenti, ma come la norma che assicura assunzioni più facili. L'idea che il governo «liberalizzi» i licenziamenti, infatti, non sarà mai accettata dall'opinione pubblica e il sindacato avrà gioco facile a trovare consenso contro la proposta. Ma se Berlusconi saprà sconfiggere la propaganda della Cgil, allora avrà la strada in discesa e potrà davvero modernizzare il mercato del lavoro, creando nuova occupazione. Come tutti sanno, uno degli scogli principali che impediscono alle aziende di assumere quando ne hanno bisogno è che una volta fatto entrare un dipendente non si sa più come metterlo alla porta. Il vincolo che lega un'impresa alla sua forza lavoro è più indissolubile di quello matrimoniale.  Tra moglie e marito, qualora le cose non vadano per il verso giusto, c'è sempre la possibilità di un divorzio: si stabiliscono gli alimenti e tutto finisce lì, ognuno libero di andarsene per la propria strada. Tra imprenditore e lavoratore anche se le cose non vanno non si può fare niente. O si becca il dipendente nell'atto di strangolare il datore di lavoro, oppure bisogna rassegnarsi,  a meno che l'azienda non dichiari di stare tanto male da dover  tirar giù la serranda. È ovvio che in una simile condizione a nessuno viene voglia di rischiare e di tirarsi in casa qualche piantagrane. In genere, da quando ci sono i contratti Co.co.co o i lavori a progetto, si preferisce assumere qualcuno non in pianta stabile. Lo si prova, lo si tiene per un po' e quindi si vede. A volte così si va avanti  anni, perché non si sa mai: se il lavoro cala, un precario lo si può liquidare senza troppe storie, ma se ha il contratto a tempo indeterminato sono dolori. Non sarebbe più facile fare come in altri Paesi, dove quando si ha lavoro si assume e quando manca si licenzia? Certo che lo sarebbe e probabilmente, come avviene all'estero, crescerebbe l'occupazione, almeno per i giovani. Ma così verrebbe meno il ruolo del sindacato e questo i capoccia della Cgil e delle altre sigle confederali  non lo vogliono. Finché sono loro a tenere in mano il boccino delle trattative, i lavoratori versano la quota di iscrizione che serve a mantenere la struttura organizzativa. Se i dipendenti si regolano con l'azienda e magari la cambiano spesso scegliendo quella che offre migliori prospettive, per i funzionari della Triplice diventa difficile tener sottocontrollo gli iscritti e ancor più esigere le quote sindacali. La flessibilità, replicano i baroni di Cgil, Cisl e Uil, consente lo sfruttamento del lavoratore. Sciocchezze. Basta vedere cosa accade negli altri Stati europei, dove nessuno è inamovibile. Mentre da noi solo il 20 per cento dei giovani è occupato, in Gran Bretagna si sale al 50 e in Germania al 46. Rendendo possibile il licenziamento, migliaia di lavoratori verrebbero gettati sul lastrico e nelle aziende sarebbe il Far West, insistono i propagandisti delle confederazioni. Altre sciocchezze. Laddove sono state applicate misure simili non è accaduto niente di selvaggio, semmai si è messo argine agli abusi di chi con la scusa del posto fisso occupava la poltrona senza lavorare.  Ed è questa mentalità la vera nemica della piena occupazione. Il sindacato, dopo aver teorizzato per anni  che il salario è una variabile indipendente dalle sorti economiche dell'azienda (a sostenerlo fu Luciano Lama e si è visto con quale successo) oggi pensa ancora che il posto sia una variabile indipendente dall'andamento di un'impresa. Ma il lavoro non può prescindere dal conto economico. Se la società guadagna accresce il numero dei propri dipendenti, se perde deve mettersi a dieta.  Perché le aziende sono una cosa viva, nascono crescono e a volte dimagriscono: non si può ingessarle. E soprattutto non si può obbligarle a tenersi anche chi non serve o non ha voglia di faticare. Una fabbrica, un ufficio non sono né una sede sindacale, né una sede di partito. Lì c'è posto anche per chi non ha voglia di lavorare. In azienda no.  Dunque, caro Presidente del consiglio, si dia da fare. Non dico che metter mano al mercato del lavoro le restituirà i consensi perduti, ma per lo meno prima o poi le renderà il merito di aver provato a modernizzare questo paese.  E questo non è poco. 

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