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L'editoriale

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di Maurizio Belpietro

Giulio Bucchi
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Non vorrei sembrare eccessivamente pessimista, ma a me l'Italia ricorda la Costa Concordia. Nonostante passi pericolosamente vicino agli scogli e proceda a una velocità superiore a quella consentita dalle condizioni economiche, chi la guida si preoccupa di fare l'inchino alla Ue senza rendersi conto che sta andando a sbattere. Come ho scritto, non ho particolare simpatia per i tassisti. Soprattutto perché stento a credere che guadagnino solo 1200 euro al mese come dichiarano. Ma l'idea che l'Italia possa uscire dalla crisi liberalizzando le licenze delle auto pubbliche mi pare bislacca. Detto con franchezza: ma chissenefrega dei tassisti. Cosa volete che mi importi se rispettano le regole del libero mercato oppure se sono privilegiati. Qui il tema è un altro e assai più grave: se non riduciamo il debito pubblico e diamo dimostrazione al mondo che siamo in grado di pagarlo, nel giro di un paio di mesi rischiamo di fallire. Ho la sensazione che una buona parte degli italiani, e probabilmente la maggioranza dei politici, non abbia compreso ciò che è accaduto la scorsa settimana. La retrocessione di Standard and Poor's  non è una questione di immagine, ma una faccenda di quattrini. Essere declassati, considerati alla stregua di una nazione a rischio bancarotta, non solo ha un effetto immediato sui rendimenti, costringendo il Paese che ha subìto la bocciatura ad alzare i tassi per invogliare i sottoscrittori a metter mano al portafogli. Ma allontana tutti i risparmiatori che non hanno voglia di rischiare. Ci sono fondi che hanno come regola l'investimento solo in titoli sicuri, altri in cui è fatto divieto di scendere sotto un certo livello. Ciò vuol dire che le istituzioni disposte a comprare i nostri Buoni del Tesoro, ossia a finanziare il nostro debito pubblico, diminuiranno. Di quanto? È proprio qui il problema. Fin che non si tocca con mano non lo si può sapere. Una delle prossime settimane, quando si apriranno le aste per i Buoni e i certificati di nuova emissione, potremmo dunque essere costretti a scoprire con disappunto che un certo numero di investitori ha deciso di dirottare i propri soldi altrove. Soprattutto se a Standard and Poor's si saranno aggiunte altre agenzie di rating che, secondo le voci, sarebbero anch'esse intenzionate a  retrocederci. Che cosa succederebbe in tal caso? Semplice. Saremmo nelle stesse condizioni della Costa Concordia. Una balena spiaggiata con uno squarcio nella carena, da cui entrano migliaia di litri d'acqua, con il risultato di non governare più il Paese. Succederebbe ciò che è successo in Argentina  e sta succedendo in Grecia. Lo Stato non avrebbe i soldi per pagare gli stipendi dei dipendenti pubblici, per saldare i fornitori e rimborsare i debiti ai cittadini onesti che hanno versato tasse in eccesso e le vorrebbero indietro. Si entrerebbe in una spirale di nuove imposte e tagli maldestri, col risultato di precipitare il Paese nel caos: una specie di salvi chi può, con quel che ne consegue. Come ho premesso, a qualcuno lo scenario tracciato parrà straordinariamente negativo e mi accuserà di eccesso di pessimismo. In realtà, io sto solo delineando il peggio, al quale però ci si può ancora sottrarre. A patto di volerlo e saperlo fare. Mi spiego. Perché Standard and Poor's  e le altre agenzie di rating ce l'hanno con noi e ci bocciano? Il motivo è piuttosto chiaro: abbiamo un forte debito e gli analisti cominciano a dubitare della nostra capacità di ripagarlo. Per tranquillizzarli c'è un solo modo: ridurre il debito. Purtroppo, il nostro governo, al pari del precedente e di tutti quelli che si sono susseguiti negli ultimi vent'anni, di voler ridurre la montagna di miliardi che abbiamo preso a prestito non dà nessun segno. C'è un piccolo libretto del professor Paolo Savona (Eresie, esorcismi e scelte giuste per uscire dalla crisi, Rubbettino editore) in cui si riassumono, dal 1991 a oggi, gli effetti di tutte le manovre, sulle tasse e sulle spese. La sostanza è riassumibile in pochi dati. Nell'arco di tempo preso in considerazione, le entrate fiscali sono passate dal 30 al 43 per cento del Pil e le spese hanno registrato sempre qualche punto in più. Le tre manovre del 2011 (due di Berlusconi, una di Monti) non fanno eccezione. Si aumentano le tasse, contraendo il Pil, ma non si riducono, se non di pochissimo, le spese. Ciò vuol dire che il debito resta invariato, anzi, che rischia di aumentare perché, pur mettendo nuove imposte, a causa della recessione le entrate potrebbero diminuire. Se in vent'anni le manovre correttive non hanno portato a nulla di buono, è il momento di interrogarsi sulla loro efficacia. E magari di cambiare rotta, prendendo altre misure. Che non sono nulla di straordinario, ma si basano su tagli concreti della spesa e non sull'aumento delle tasse. Che poi è ciò che si aspettano i mercati e i nostri partner. Angela Merkel sarà una testa quadra, ma qui i crucchi sembriamo noi, visto che continuiamo ad applicare la stessa ricetta anche se finora ha prodotto solo guai. È inutile mettersi il salvagente: bisogna evitare che la nave finisca sugli scogli. Non so voi: ma io di farmi affondare da Schettino, ossia da una classe politica spavalda e ganassa, non ho nessuna voglia.      di Maurizio Belpietro

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