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L'editoriale

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di Maurizio Belpietro

Andrea Tempestini
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Tre vicepresidenti su quattro del Consiglio regionale della Lombardia sono agli arresti o nei guai con la giustizia. Filippo Penati, in quota Pd, le manette le ha evitate per un soffio, ma solo perché il giudice ha ritenuto che i reati più gravi fossero prescritti. Franco Nicoli Cristiani, Pdl, preso con la mazzetta in un libro, è invece passato dal Pirellone alla cella senza fermate intermedie. Il terzo, Massimo Ponzoni, anch'egli del Pdl e responsabile della segreteria del Consiglio, è finito dentro due giorni fa con un elenco di accuse impressionanti, tra le quali quella di aver provocato la bancarotta di una sua società. In tutti i casi ci sono di mezzo i soldi, tanti e di dubbia provenienza, e questo dovrebbe indurre a qualche riflessione. La principale riguarda la selezione delle persone che i partiti mettono in lista e a cui poi affidano le istituzioni. Passi  che su 60 consiglieri ce ne sia uno che ruba o si fa corrompere: nella media la mela marcia è da mettere nel conto delle eventualità. Ma tre su quattro fatica a digerirle perfino un Paese che al malaffare si è abituato. La questione ha però una ricaduta diretta anche sulla riforma della legge elettorale. Da quando il referendum è stato bocciato si è sviluppata nel Paese una discussione sull'utilità di varare in fretta una modifica al sistema maggioritario, ritenuto la causa di tutti i mali, in particolare della scarsa aderenza tra Parlamento e società civile. Colpa dei partiti è il giudizio comune. Sono loro che scelgono le persone da far eleggere alla Camera o al Senato e agli elettori tocca votarli. Secondo questa tesi, per far tornare la politica vera e rappresentanti decenti a Montecitorio e Palazzo Madama, si dovrebbero reintrodurre le preferenze, così il cittadino avrebbe la possibilità di scegliere chi votare e chi mandare a casa. Ma la modifica migliorerebbe davvero la qualità degli onorevoli come sostengono i fautori della riforma elettorale? Personalmente, non credo. L'unico effetto prodotto è che girerebbero ancor più soldi e, probabilmente, di conseguenza aumenterebbero i corrotti. Pochi lo ricordano, ma nel 1993 in Italia si votò per abolire le preferenze, cioè la possibilità per l'elettore di decidere da chi farsi rappresentare. Mario Segni - che di quel plebiscito fu il promotore - ebbe gioco facile a convincere gli italiani a votare sì all'abrogazione delle norme. Il Paese non si era ancora lasciato alle spalle Tangentopoli e tutti avevano ben presente il fiume di denaro che era stato risucchiato dalla politica. La quale, fu la giustificazione dei corrotti beccati coi soldi in bocca, costa. Se uno vuole essere eletto o può contare sul proprio patrimonio oppure deve farseli prestare. Da chi? Ma dall'imprenditore amico, al quale restituirà il favore una volta eletto assicurandogli qualche appalto pubblico. Proprio per levar di mezzo questo sistema, gli elettori scelsero il maggioritario, convinti che con il nuovo meccanismo non ci sarebbero più state campagne elettorali costose, con manifesti e santini (cioè i volantini da mettere nel portafoglio) con i nomi dei candidati. I dépliant lasciati in ogni cassetta delle lettere con il nome dei candidati, i comizi in provincia e gli spot sulle tv locali costavano centinaia di milioni. Dunque si preferì eliminare tutto, pensando di cancellare anche le tangenti che servivano a finanziare tutta quella propaganda. L'illusione, naturalmente, è durata poco, perché gli elettori hanno capito presto che il nuovo sistema includeva la fregatura. Non solo i ladri restavano tali indipendentemente dal modo con cui erano eletti, ma in questo modo i cittadini avevano perso la possibilità di decidere chi mandare in Parlamento. Risultato: a distanza di quasi vent'anni molti hanno nostalgia del proporzionale e delle sue preferenze. Secondo loro, tornando al vecchio sistema, l'elettore potrebbe esercitare un maggior controllo. Ma anche in questo caso si tratta di un'illusione, anzi di un inganno. E a dimostrarlo è proprio ciò che sta accadendo in Lombardia. Penati, Nicoli Cristiani e Ponzoni non sono stati eletti con il sistema maggioritario, ma con quello proporzionale. Nelle Regioni infatti i quattro quinti dei seggi vengono assegnati sulla base di un sistema che prevede le preferenze e lo sbarramento al tre per cento. Solo un quinto degli eletti approda in Consiglio grazie al maggioritario. Dunque, il sistema proporzionale che oggi tanto si invoca come soluzione di tutti i guai, se da un lato eviterebbe le nomine calate dall'alto, contemporaneamente favorirebbe il mercato dei voti, le tangenti e la corruzione che abbiamo imparato a conoscere all'epoca di Mani pulite. La morale è una sola: con un sistema marcio non c'è legge elettorale che tenga. L'unica soluzione che ci resta è rifondare i partiti. O affondare quelli che non cambiano.

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