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L'editoriale

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di Maurizio Belpietro

Giulio Bucchi
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Con la sentenza del tribunale di Milano, si è chiuso ieri un processo a Silvio Berlusconi che non avrebbe neppure dovuto cominciare. Chiunque avesse letto gli atti del procedimento senza avere gli occhi offuscati da pregiudizi nei confronti dell'ex premier, si sarebbe infatti immediatamente reso conto che il cosiddetto caso Mills non sarebbe mai potuto approdare a una sentenza di condanna. Principalmente per ragioni di tempo. La presunta falsa testimonianza dell'avvocato inglese risale al 1995 e la presunta ricompensa per aver mentito a tre anni dopo. Si tratta dunque di roba vecchia, che già nel 2005, quando partì l'inchiesta, era vicina ad essere dichiarata prescritta. La Procura però s'intignò e decise comunque di perseguire l'allora presidente del Consiglio. Ma visto che il processo era un morto che avanzava, i pm per tenerlo in vita si prodigarono in un accanimento terapeutico mai visto prima. Il reato da perseguire non fu fissato nel momento della presunta erogazione di denaro, ma, con un'azzardata interpretazione giuridica, lo si spostò di un paio d'anni, quando cioè Mills decise di spendere la somma. Idea originale e ai limiti della decenza, in quanto se la si accettasse vorrebbe dire che un ladro non è ladro fino a che i soldi rubati non li usa. E dunque, volendo farla franca, è sufficiente mettere il denaro sotto il materasso. La tesi fece storcere il naso perfino alla Cassazione, ma essendoci di mezzo Berlusconi il processo andò avanti, macinando udienze su udienze. Le quali si svolsero di corsa anche quando fu chiaro che comunque il procedimento non sarebbe mai servito a nulla, in quanto non avrebbe mai potuto approdare a una sentenza definita. Nonostante l'espediente del reato posticipato, essendo alle soglie della prescrizione, al massimo si sarebbe riusciti a celebrare il primo grado di giudizio e non i tre richiesti. Delle persone di buon senso a questo punto avrebbero gettato la spugna, come è d'abitudine fare in molti tribunali. A Torino tempo fa il Procuratore capo fece perfino una circolare per invitare i colleghi ad adeguarsi alla regola e infatti molti riti non vennero iniziati, ma passarono direttamente dalla fase d'indagine a quella d'archivio. Nella vicenda in questione, i pm decisero al contrario di andare avanti e di procedere al giudizio pur sapendo che il giudizio non ci sarebbe mai stato. La testardaggine fu tale da lasciar sospettare che ci fosse chi volesse appioppare a Berlusconi almeno una condanna di primo grado, così da lasciargli il marchio indelebile del corruttore anche senza la pena accessoria. Sia come sia, la magistratura milanese in questi anni ce l'ha messa tutta per dimostrare che il Cavaliere fosse colpevole e avesse ammaestrato il legale inglese. In realtà, nonostante gli sforzi, poco è stato accertato. Certo non il passaggio di denaro, al punto che perfino Peter Gomez, uno dei giornalisti che meno amano l'ex premier, nel suo libro dedicato al caso Mills è costretto a scrivere che «i magistrati non sono riusciti a dimostrare la provenienza esatta del denaro incassato dall'avvocato». A chiarirlo in maniera ancor più netta è stata l'esperta voluta dalla Procura. Nell'aula del tribunale la dottoressa Gabriella Chersicla avrebbe dovuto fornire la pistola fumante e invece ha certificato che non c'è traccia di un solo euro pagato da Berlusconi a Mills. Dopo aver analizzato grafici, intrecci azionari, finanziarie estere e scatole cinesi disseminate in paradisi fiscali, non senza qualche imbarazzo la signora ha dovuto ammettere che non esiste un bonifico, un assegno o una qualsiasi traccia bancaria che ricolleghi il Cavaliere all'avvocato inglese. In un Paese normale, la testimonianza avrebbe risolto alla radice la questione: se non c'è passaggio di denaro dal presunto corruttore al presunto corrotto non c'è corruzione o per lo meno non c'è la prova che vi sia stata, un po' come un processo per delitto dove non vi sia il cadavere o l'arma del delitto. Ma il nostro come sappiamo non è un Paese normale e il processo che non avrebbe mai dovuto essere celebrato  si è svolto regolarmente come se non fosse inutile e come se ci fosse la possibilità di provare la colpevolezza dell'imputato. A distanza di cinque anni, invece, si è arrivati a dimostrare solo un paio di cose. La prima è che l'avvocato Mills è un gran pasticcione. Negli anni ha fatto operazioni azzardate e quando è stato chiamato a risponderne dal Fisco inglese ha provato a giustificarsi dando la colpa a un morto, cioè a uno dei più stretti collaboratori di Berlusconi. Il motivo è semplice: essendo sotto un metro di terra, il defunto non avrebbe mai potuto smentirlo. A causa di questa bugia, che il legale si rimangiò appena capita la gravità di ciò che aveva detto, si è dunque innestato il processo che non si sarebbe mai dovuto svolgere. La seconda questione dimostra invece che i più agguerriti fornitori di argomenti a sostegno della tesi della persecuzione giudiziaria di Silvio Berlusconi sono gli stessi magistrati. Le acrobazie giuridiche di cui hanno dato prova  serviranno infatti al Cavaliere per dichiararsi vittima dei pm da qui all'eternità. Il risultato quindi è solo negativo. Per le casse pubbliche che hanno speso soldi pur sapendo che il processo non sarebbe servito a nulla. Per  la giustizia che ha perso l'occasione di provare di essere aliena da qualsiasi accanimento. Ora c'è solo da sperare che, chiuso il processo, si chiuda la storia. E, possibilmente, anche la guerra dei vent'anni tra toghe e politica.    di Maurizio Belpietro

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