L'editoriale

Andrea Tempestini

Anche ieri in Piemonte è stata una giornata nera. Almeno per il traffico. Alcune centinaia di esponenti del movimento che si oppone all’alta velocità hanno bloccato l’autostrada del Frejus per la caduta da un traliccio del leader No Tav Luca Addà. Cosa ci sia da protestare se un tizio casca di sotto mentre è impegnato in pericolose acrobazie non è noto. Il giovanotto ha fatto tutto da solo, senza alcun aiuto se non quello dei suoi sostenitori. Per impedire l’allargamento di un cantiere si è arrampicato su uno dei pali dell’elettrodotto e, presa la scossa, è precipitato. Che sia stato egli stesso a mettere a repentaglio la propria vita però poco importa ai contestatori. Per loro la colpa è della polizia, dello Stato e, ovvio, anche dei giornalisti, noi di Libero per primi. E per questo un gruppo di professionisti della protesta ci ha fatto visita lunedì sera, danneggiando l’ingresso della redazione e lasciandoci in ricordo un certo numero di scritte. Ma non è dei loro insulti che qui ci vogliamo occupare. Bensì degli argomenti portati a sostegno delle tesi con le quali da anni si oppongono a un’opera ritenuta utile dai governi di tutti i colori, dalla Francia che partecipa alla sua costruzione e dall’Europa che la finanzia. Per i No Tav i lavori provocherebbero danni incalcolabili, soprattutto all’ambiente. Toccare il sottosuolo per farvi le gallerie in cui far correre i binari del treno inquinerebbe l’aria, le falde e non si sa che cos’altro. Radiazioni pericolose si scatenerebbero in tutta la valle, compromettendo la salute degli abitanti. Siccome però le autorità hanno respinto l’allarme riguardante l’immediato disastro con documenti alla mano, gli oppositori hanno ripiegato su un altro argomento. I lavori non servono, perché l’infrastruttura non è necessaria né economicamente conveniente. I passeggeri scarseggerebbero, le merci sarebbero insufficienti a coprire i costi e comunque il traffico di container sarebbe in diminuzione. Insomma, tutti quelli che fino ad oggi hanno sostenuto il progetto sarebbero dei ciula. Professionisti ed esperti che avrebbero sbagliato i calcoli e sottovalutato i rischi. Per questo i No Tav chiedono di stoppare gli scavi e di bloccare le trivelle. In alternativa propongono un tavolo di discussione, lamentando il fatto che la protesta non abbia avuto ascolto. In realtà, quello del confronto e del dibattito è un rito che si ripete da almeno vent’anni perché prima di procedere i governi hanno provato ogni genere di consultazioni, provvedendo a promettere soldi in cambio del via libera, accogliendo anche alcune modifiche suggerite dai contestatori. Tutto inutile. Il dialogo infatti funziona fino a che non si mette mano a pale e picconi. Poi, al primo colpo e alla prima pietra che rotola, si ricomincia da capo. Il problema ovviamente non riguarda le centinaia - ma se fossero migliaia sarebbe uguale - che si oppongono alle ruspe.  I No Tav fanno il loro mestiere, che è quello di impedire che da lì passi un treno ad alta velocità, perché a loro l’alta velocità non piace e, per le loro esigenze, non ne hanno bisogno. Il nodo invece riguarda lo Stato e il dovere che le sue istituzioni hanno di difendere le proprie scelte. Un pugno di uomini può per anni tenere in scacco un Paese? Può un’opera ritenuta di interesse nazionale essere fermata dagli interessi locali di un gruppo di abitanti toccati dai lavori? Per anni governi di destra e sinistra hanno evitato di rispondere alla domanda, piegandosi ai ricatti, ai blocchi stradali e alle pressioni di un circolo ristretto di politici, intellettuali e sindacalisti. Una politica che vista oggi appare chiaramente inefficace e sbagliata. Spostare più in là il problema, accettare comportamenti al limite della legalità quando non totalmente illegali non è servito a trovare una soluzione, ma semmai a convincere gli oppositori di avere la forza di piegare le istituzioni. Ora siamo con le spalle al muro. O perdiamo i finanziamenti ricevuti per realizzare l’infrastruttura o facciamo ritornare l’autorità dello Stato, e dunque anche la legalità, in un territorio dove lo Stato per anni ha dato la sensazione di battere in ritirata. Per il governo dei tecnici l’operazione non sarà facile. Essendo privi di un consenso popolare, Monti e i suoi ministri dovranno far valere solo la legge, senza far conto sui partiti e i loro simpatizzanti. Ma forse proprio questa potrebbe rivelarsi la carta vincente dei professori. Forse, non avendo sindaci da blandire e un elettorato da coltivare, i ministri venuti dalla Bocconi potranno far parlare esclusivamente il codice penale. Non sappiamo se ne avranno il coraggio. Se cioè avranno la tempra di andare fino in fondo, senza tollerare ulteriormente che centinaia di poliziotti siano presi a sassate e migliaia di passeggeri siano tenuti in ostaggio lungo l’autostrada. Se però avranno la determinazione di non guardare in faccia a nessuno, neanche agli pseudo intellettuali che ispirano i No Tav, credo che l’Italia gliene renderà merito. Negli anni Settanta lo sviluppo di questo Paese si è fermato anche per proteste come quelle della Val di Susa. Autostrade, ferrovie, discariche, centrali elettriche: ogni opera ha un comitato che non la vuole. Alzando le mani di fronte ad ognuno di essi, lo Stato ha abbassato la crescita. Se adesso le mani le useranno per fare quello che non si è fatto per anni, noi applaudiremo.