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L'editoriale

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di Maurizio Belpietro

Lucia Esposito
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Quale altro Paese accetterebbe che dei propri militari, mandati in missione per compiere un servizio, venissero arrestati e sottoposti a processo per aver adempiuto al loro mandato? Probabilmente nessuno. E infatti, a memoria d'uomo, non si ricorda un caso simile a quello che ci vede coinvolti in India, dove due nostri soldati sono stati buttati in gattabuia per aver svolto il proprio incarico, difendendo la nave cui erano stati assegnati. Stiamo parlando ovviamente di Paesi in cui non è in corso una guerra e che sono retti da una democrazia. Diverso è il discorso in posti in cui  si combatte, dove tra i rischi di chi veste una divisa c'è anche di divenire ostaggio delle forze nemiche. Ne sa qualcosa Gilad Shalit, il giovane israeliano finito nelle mani degli uomini di Hamas e rimasto loro prigioniero per più di cinque anni. In genere i soldati, anche quando sbagliano, non sono soggetti alla giurisdizione del posto in cui è avvenuto il fatto, ma a quella del proprio Paese. È sempre stato così per i militari americani, per i quali gli Stati Uniti hanno fatto di tutto, compreso intervenire senza andar troppo per le spicce, sottraendoli ai rischi di un processo fuori casa. Prendete il caso del Cermis, quando quattro cow-boy alla guida di un aereo militare americano tranciarono i cavi di una funivia in Val di Fiemme. Per il comportamento da bulli del capitano Richard Ashby e del suo navigatore Joseph Schweitzer morirono venti persone - italiani, tedeschi, belgi, polacchi, austriaci e olandesi - ma pilota e copilota non fecero un giorno di guardina in Italia. Diverso tempo dietro le sbarre furono invece costretti a passarlo i due agenti dei servizi segreti francesi che si fecero beccare dopo aver affondato la  “Rainbow Warrior”, un peschereccio di Greenpeace che girava gli atolli nel Pacifico per fermare gli esperimenti nucleari in Polinesia. La nave colò a picco nel porto di Auckland e nell'esplosione morì un fotografo del gruppo ambientalista. Gli inquirenti neozelandesi fecero arrestare Alain Mafart e Dominique Prieur, una tenera coppietta che soggiornava in un camper lì vicino. A mandarcela era stato il governo francese, probabilmente con il benestare di François Mitterrand, all'epoca presidente della Repubblica francese. La Nuova Zelanda avrebbe voluto sbattere in galera i due per almeno dieci anni, ma a causa della forte pressione, economica e diplomatica, di Parigi, Wellington acconsentì all'estradizione dietro la promessa che Mafart e Prieur avrebbero scontato la pena fino in fondo; tuttavia, una volta rientrati, la Francia abbracciò con riconoscenza i due agenti, promuovendoli. Perché abbiamo raccontato le storie, seppur diverse, di militari pizzicati all'estero e sfuggiti alla giustizia locale? Perché, indipendentemente da quel che è successo a bordo della petroliera “Enrica Lexie”, se cioè siano stati effettivamente Massimiliano Latorre e Salvatore Girone a sparare a un peschereccio indiano, provocando la morte di due persone (la perizia sui bossoli non lo ha ancora accertato), l'Italia ha il dovere di riportare a casa i suoi marò. I due lagunari a bordo della nave non erano in crociera nell'Oceano indiano. La loro non era una vacanza esotica, ma insieme ad altri duecento militari erano imbarcati per difendere gli interessi dei nostri armatori. A mandarceli è stata una legge voluta da tutti i partiti e votata praticamente all'unanimità in Parlamento.  E le regole d'ingaggio obbligavano i soldati a proteggere l'imbarcazione da qualsiasi tentativo di sequestro da parte dei pirati che infestano quelle acque. Hanno sbagliato, confondendo degli innocui pescatori con dei banditi? Non lo sappiamo e probabilmente non lo sapremo mai. Sta di fatto che erano lì a tutelare il nostro Paese e i suoi affari, evitando che il governo fosse costretto a pagare milioni per veder rilasciati dei connazionali. Hanno agito senza riflettere e ponendo troppo in fretta le mani alla fondina? Lo dirà un giudice italiano, così come prevedono gli accordi internazionali. Insomma, il ricatto, la prepotenza dell'India non possono essere sopportati un minuto di più. Se è vero, come dice Mario Monti, che con il suo arrivo alla guida del governo l'Italia è stata riammessa nel club dei Grandi, lo dimostri facendo valere tutto il peso del nostro Paese e ottenendo la liberazione di Latorre e Girone.  Faccia ciò che fecero Mitterrand o Clinton, evitando il belato della nostra diplomazia, ma esercitando tutte le pressioni necessarie. È intollerabile infatti la mollezza fin qui dimostrata con Nuova Delhi che, speriamo, non sia segno di disinteresse per la sorte dei nostri due militari. L'ignobile menefreghismo manifestato dall'amministrazione comunale di Milano a guida Pisapia, che si è rifiutata di esporre l'immagine dei marò, al contrario di quanto fu fatto per ogni genere di rapito, speriamo non trovi emuli a Palazzo Chigi. La liberazione di due soldati mandati alla ventura su una nave senza che fossero prima chiariti gli aspetti giuridici dev'essere un impegno prioritario del premier. E anche del presidente della Repubblica. Giorgio Napolitano è il capo delle forze armate e dunque anche di Massimiliano Latorre e Salvatore Girone.  A lui perciò ci rivolgiamo chiedendogli di fare ogni sforzo perché i due marò siano riportati a casa, sottraendoli all'India dove rischiano perfino la pena di morte. Un appello che chiediamo di sottoscrivere a tanti. Colleghi e lettori, politici e persone comuni. Affinché due servitori del Paese non debbano pagare per aver fatto il proprio dovere in nome dell'Italia.   di Maurizio Belpietro

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