L'editoriale

Lucia Esposito

Se c’era un motivo per credere che i tecnici avrebbero fatto meglio dei politici era che i primi non avrebbero dovuto rispondere agli elettori. Non avendo clientele da coltivare e piazze da tenere buone, i professori avrebbero potuto decidere senza vincoli, facendo la cosa che ritenevano migliore per il Paese. Purtroppo, questo vantaggio il governo se lo sta mangiando, impantanandosi in una serie di trattative e di mercanteggiamenti degni della prima Repubblica. Non solo: come ai tempi di Andreotti, pur sapendo di dover varare una riforma, Monti e i suoi ministri, invece di imboccare la via maestra del decreto, preferiscono prendere quella lunga e pericolosa della legge delega. Questa sarebbe la via, almeno secondo le indiscrezioni. Un modo democristiano per non assumersi la responsabilità della scelta. Un sistema paraculissimo per lasciare al Parlamento il compito di varare il provvedimento. Se ciò corrisponderà al vero, se cioè si perderà tempo con un iter parlamentare lungo e inadeguato alla situazione, vorrà dire che dopo settimane di discussioni, il presidente del Consiglio si è trovato di fronte a un bivio: o approvare una riforma del mercato del lavoro che scontenti i sindacati oppure partorirne una non degna del nome per lasciare tutto come prima. E posto di fronte alla decisione, il premier non ha fatto quello che ci si sarebbe aspettato da chi in poche settimane si è guadagnato il soprannome di Rigor Montis. Invece di tirare diritto e cancellare l’articolo 18 anche a costo di dare qualche dispiacere a Susanna Camusso e alla sua band, Monti ha deciso di mettere la questione nelle mani di Camera e Senato, non senza aver prima registrato un verbale che tiene conto dei pro e dei contro alla riforma. In pratica, più che il capo di un esecutivo decisionista, Monti si rivelerebbe un notaio, rilevando le posizioni delle parti. Se così fosse non è dato sapere a cosa siano serviti i mesi trascorsi a discutere con le confederazioni. Che bisogno c’era di tutte le riunioni cui abbiamo assistito? Perché sprecare tempo e fatica per scoprire che la Cgil era contraria? Per sapere che i sindacati non volevano cancellare la norma che difende i fannulloni non c’era bisogno di scomodare la Fornero e costringerla a lunghe trattative. Se il presidente del Consiglio mi avesse fatto una telefonata glielo avrei rivelato io gratis. O forse Monti pensava che bastasse una delle sue freddure a far rompere il ghiaccio fra governo e sindacati? Era insomma piuttosto noto che Camusso e compagni avrebbero fatto le barricate preferendo rompere piuttosto che firmare la loro condanna a morte sindacale. Se poi fosse confermata la notizia che gli indennizzi obbligatori saranno estesi anche alle aziende sotto i 15 dipendenti, la riforma, come abbiamo già scritto, si rivelerebbe una controriforma. Dunque a cosa sono serviti questi mesi? La domanda fa il paio con quella posta qualche giorno fa da Francesco Giavazzi sul Corriere della Sera. L’economista, con un editoriale, ha fatto infuriare il premier, suo ex compagno di università e di articoli per il quotidiano di via Solferino. Ma cosa ha scritto di così grave il professore della Bocconi? Niente di drammatico, semplicemente ha invitato il premier a darsi una mossa, perché il tempo stringe e l’economia invece di dare segni di ripresa ne dà di peggioramento. È di ieri la notizia che nei primi mesi dell’anno il Pil, già sottozero nel 2011, è calato ancora un po’. Segno evidente che la cura Monti non sta facendo effetto, ma anzi aggrava le condizioni del paziente. Nonostante lo spread sia sceso, la tempesta finanziaria si sia calmata e le Borse diano segni di ripresa, l’encefalogramma della nostra economia è sempre piatto. Anzi, più che piatto scivola come su un piano inclinato. E il governo che cosa fa? Semplice: se fossero confermate le indiscrezioni sulla legge delega per il mercato del lavoro, significherebbe che sta prendendo tempo. È successo con le liberalizzazioni, questione che gli è appunto stata rimproverata da Giavazzi. Invece di avviare in fretta le misure per una maggior concorrenza, le norme si sono impantanate nel dibattito parlamentare. Forse, dopo mesi, ora ci sarà il voto, ma soltanto perché l’esecutivo ha posto la fiducia. Non si poteva fare prima? Le liberalizzazioni sono già un brodino caldo, se poi arrivano quando il paziente è in coma a che servono? La stessa fine si rischia con il mercato del lavoro. Dopo le lunghe trattative, se Monti deciderà di mettere la riforma in una legge delega, segnalando al Parlamento le opinioni discordanti fra le parti, finirà con un rinvio. Immaginiamo già la via crucis che attende le nuove norme: prima di disseppellirle da sotto una valanga di emendamenti ci vorranno mesi. Come i lettori sanno, noi sin dall’inizio abbiamo nutrito dubbi sulla procedure di nomina del nuovo governo, ma alla fine ci eravamo rassegnati pensando che le carenze istituzionali sarebbero almeno state colmate dai vantaggi decisionali. Purtroppo se le cose andassero come abbiamo descritto dovremmo ricrederci. Per questo oggi ci tocca scrivere ciò che non avremmo mai pensato: caro Monti, smetti di battere la fiacca. Se vuoi fare la riforma del mercato del lavoro, comincia a dare l’esempio e a decidere in tempi brevi. Il resto verrà da sé. di Maurizio Belpietro