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L'editoriale

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di Maurizio Belpietro

Lucia Esposito
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Allora, vediamo di ricapitolare. La riforma epocale, quella che dovrebbe rilanciare l'economia, creare nuovi posti di lavoro, avvicinare l'Italia ai Paesi moderni, in realtà non si applica ai 3 milioni e mezzo di dipendenti pubblici e neppure al sessanta per cento dei lavoratori delle piccole imprese. Messa da parte l'enfasi con cui era stata accolta la legge, si capisce che l'abolizione dell'articolo 18 non tocca tutti, come invece aveva assicurato il ministro del Welfare Elsa Fornero durante la conferenza stampa, ma soltanto operai e impiegati delle medie e grandi imprese, vale a dire circa 4 milioni e mezzo di persone. Tante ovviamente, ma niente se confrontate al numero doppio di persone che sarà lasciato fuori dalla riforma. Ciò significa che su 15 milioni di lavoratori dipendenti, meno di un terzo sarà coinvolto dalle nuove norme, ovvero che con l'approvazione del provvedimento in Italia ci saranno sempre più figli e figliastri. Qualcuno sarà tutelato e qualcun altro no. I dipendenti pubblici fannulloni potranno continuare a battere la fiacca sicuri di farla franca perché nessuno potrà mai metterli alla porta. Quelli delle piccole imprese artigiane dovranno invece rigare dritto, perché a rischio di espulsione. Per chi invece è occupato in una grande azienda, niente paura, anche se cacciato può sempre invocare la clausola che vieta i licenziamenti discriminatori. Più si dirada la cortina fumogena che ha impedito di comprendere bene la riforma e più si capisce che in realtà molte delle novità annunciate sono destinate a rimanere sulla carta. Tra queste, senza dubbio, i tempi brevi nell'accertamento delle motivazioni di un licenziamento. Già ora la procedura non è delle più rapide, in quanto per ottenere un pronunciamento della magistratura ci possono volere anni, a volte anche dieci. Ma domani, cioè una volta entrata in funzione la riforma, il periodo necessario a evadere la pratica sarà superiore. Come è facilmente immaginabile, le cause per licenziamenti economici impugnate dai lavoratori con l'accusa di nascondere in realtà motivi discriminatori si accumuleranno nei tribunali, con un inevitabile allungamento dei tempi. Un rischio che ieri diversi giuslavoristi segnalavano, tra gli altri Maurizio Del Conte, docente di diritto dell'Università Bocconi, la stessa di Monti. Dunque, invece di velocizzare le decisioni in materia di rescissione unilaterale dei rapporti di lavoro, fornendo alle imprese e anche al lavoratore certezze in materia, la riforma rischia di fare il contrario, lasciando tutti nell'incertezza. Se poi si aggiunge che, ancora più di prima, la soluzione dei problemi viene delegata al giudice, al quale spetterà di decidere se i licenziamenti economici sono tali oppure no, la conclusione non può che essere una sola: tanto rumore per nulla. Ma pur non essendo affatto quella riforma epocale che è stata annunciata dal governo e dai giornali che lo sostengono, la nuova legge di chiasso rischia di farne molto. Infatti, non avendo scelto la via del decreto, ma quella molto più lunga e tortuosa della legge delega, rischiamo di trovarci a discutere di articolo 18 e delle possibili modifiche da qui all'estate. Con il risultato che perfino le scarse novità introdotte finirebbero riscritte, pena la fine stessa del governo. Che questo sia l'inevitabile destino di una riforma nata male (con un'intervista al Corriere della Sera) e finita peggio (con le molte marce indietro del ministro) è a noi piuttosto evidente. La Cisl prima favorevole, ora ci sta ripensando e chiede modifiche. Il Pd, terrorizzato all'idea di trovarsi la guerra in casa, sta supplicando il premier di cambiare qualcosa. Ieri ci si è messa pure la Cei, cioè la conferenza episcopale, a premere per introdurre norme più favorevoli per i fannulloni. Per Giancarlo Bregantini, vescovo di Campobasso e Bojano, è sbagliato lasciar sola la Camusso nella battaglia in difesa dell'articolo 18. Secondo il prelato, che è presidente della Commissione lavoro della conferenza, il dipendente non può essere dismesso come un prodotto invenduto. Tesi eticamente e moralmente condivisibile, ma che si scontra con alcune regole di mercato per riportarci al concetto di posto fisso come variabile indipendente dai risultati di un'impresa. Come è a tutti noto, per anni la Cgil di Luciano Lama teorizzò che il salario fosse una variabile indipendente, ossia che gli operai dovessero vedere lievitare le loro buste paga a prescindere dall'andamento di un'azienda. Come è finita si sa. Fra la fine degli anni Settanta e l'inizio degli Ottanta molte imprese chiusero e perfino i duri e puri della Cgil furono costretti a ricredersi e ad abiurare l'assurdo credo. Oggi di duri ce ne sono pochi, ma ci rimangono ancora i puri, soprattutto in alcune curie. Alti prelati che credono di portare amore e carità in base a princìpi estranei alle regole economiche. Purtroppo, il bilancio di un'azienda non è il Vangelo. O meglio: è il vangelo per i creditori e quando questi sentono puzza di bruciato, portano i libri contabili in Tribunale. Che non è esattamente un paradiso, ma spesso l'inizio dell'inferno. di Maurizio Belpietro    [email protected]

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