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Genio e risparmio: il fucile 1867 progettato da Carcano per la presa di Porta Pia

Il Regno d'Italia aveva tagliato sulle spese militari: furono così riadattati i vecchi fucili ad avancarica

Andrea Cionci
Andrea Cionci

Storico dell'arte, giornalista e scrittore, si occupa di storia, archeologia e religione. Cultore di opera lirica, ideatore del metodo “Mimerito” sperimentato dal Miur e promotore del progetto di risonanza internazionale “Plinio”, è stato reporter dall'Afghanistan e dall'Himalaya. Ha appena pubblicato il romanzo "Eugénie" (Bibliotheka). Ricercatore del bello, del sano e del vero – per quanto scomodi - vive una relazione complicata con l'Italia che ama alla follia sebbene, non di rado, gli spezzi il cuore

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Quando le casse dello Stato sono vuote, bisogna aguzzare l’ingegno: adattare quello che già si possiede, massimizzando la resa. Un esempio storico di questo virtuoso atteggiamento viene da un’impresa bellica il cui 150° ci apprestiamo a celebrare fra qualche giorno: la presa di Porta Pia.

La Rivista Militare, periodico dell’Esercito fin dal 1856, ci ha consentito di attingere a uno dei capitoli più tecnici del suo fascicolo dedicato all’anniversario, attualmente in edicola, per ripercorrere una vicenda in cui il genio inventivo italiano fu impiegato per "fare l’Italia".

La sconfitta della Battaglia di Custoza (1866), persa dal Regno d’Italia contro l’Austria, aveva provocato nel Parlamento e nell’opinione pubblica un generico malumore verso l’Esercito. Erano state così ridotte solo a tre le classi di giovani richiamate per il servizio di leva e si cercava di risparmiare il più possibile sui materiali militari.

Eppure, in quegli anni, in tutto il mondo, si stava realizzando una vera rivoluzione per quanto riguardava la tecnologia delle armi con il passaggio sempre più irreversibile e obbligato dall’avancarica alla retrocarica.

Si stava chiudendo l’epoca in cui il soldato doveva perdere minimo 30 secondi prima di poter sparare un colpo. Con le armi ad avancarica era infatti necessario appoggiare il fucile a terra in posizione verticale, strappare coi denti una “cartuccia”, cioè un cartoccio contenente palla e polvere nera, versare nella canna la polvere, pigiarvi la pallottola con una bacchetta insieme alla carta, a mo’ di stoppaccio, coprire con una capsula di innesco il cosiddetto luminello posto sulla culatta (parte posteriore) della canna e, infine, mirare e fare fuoco.  

In quegli anni si era invece cominciato a diffondere, dopo secoli di tentativi non andati a frutto, il concetto dell’arma a retrocarica che, per la prima volta, era stato sperimentato dai Prussiani col sistema “Dreise” nel 1841 ed era stato fondamentale per la loro vittoria contro i vicini centro-europei.

Nel 1866, i francesi avevano adottato il loro primo fucile a retrocarica, lo Chassepot che, un anno dopo, avrebbe svolto un ruolo determinante per sconfiggere i garibaldini durante la Battaglia di Mentana.

Il grosso vantaggio della retrocarica, chiaramente, era costituito da una celerità di tiro molto superiore rispetto all’avancarica, unitamente a una più pratica gestione delle cartucce e dell’arma stessa.

Con questo sistema, una cartuccia già confezionata con bossolo di carta o metallico, veniva comodamente inserita dalla culatta della canna tramite un otturatore, un sistema meccanico girevole-scorrevole che consentiva di sigillare la fuoriuscita dei gas di scoppio e di sfogarli solo verso la volata sparando, in tal modo, il proiettile.

Fu così che, invece di affrontare un grosso investimento economico per rinnovare completamente il parco armi, il Regio Esercito Italiano adottò la soluzione proposta dall’armiere torinese Salvatore Carcano, che consentiva di RIADATTARE A RETROCARICA i vecchi modelli ad avancarica, fossero il Mod. 1860 od anche il precedente Mod. 1844. (Negli anni successivi, l’ingegner Carcano avrà poi un ruolo determinante nello sviluppo del fucile Mod. 91 che sarà, protagonista delle nostre due guerre mondiali).

Le culatte delle canne dei vecchi fucili furono quindi segate e risagomate per adattarvi un otturatore “ad ago”.

Quest’arma modificata prenderà il nome di Mod. 1867 e fu un enorme progresso, basti pensare un soldato ben addestrato potesse passare da una cadenza di tiro di due colpi al minuto (con fucile ad avancarica) a una di almeno dieci colpi (qui una video-dimostrazione).

Durante il collaudo, il fucile si rivelò efficace anche se non molto preciso sulle lunghe gittate. Un aneddoto riferisce che, alle critiche di un ufficiale della Commissione esaminatrice, Salvatore Carcano rispose: “Con rispetto, Eccellenza... ma con 10 lire di spesa massima a disposizione, speravate che sparasse pure dritto?”.

Sia lo Chassepot, che il fucile Carcano 1867 possono essere definiti stati embrionali di quella che sarebbe diventata la normale retrocarica. Le loro cartucce non erano però dotate di bossolo metallico, bensì ancora di carta o di seta (come per la francese) e integravano l’innesco.

Il Mod. 1867 fu dunque il fucile di Porta Pia: aveva un calibro di 17,5 mm, non molto efficiente su grandi distanze, ma per quelle di ingaggio, intorno ai 200 metri, la palla, spinta da 6 g di polvere, aveva un grande potere d’arresto.

Gli zuavi pontifici, pur avendo in dotazione il modernissimo Remington Rolling Block a retrocarica, con cartuccia a bossolo metallico, avrebbero dovuto fare i conti con un’arma di efficienza non pari, ma comunque decisamente temibile.

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