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"I genî di Mozia": il giallo archeologico del professor Lorenzo Nigro

L'archeologo de "La Sapienza" conduce il lettore alla scoperta dell'isola siciliana

Andrea Cionci
Andrea Cionci

Storico dell'arte, giornalista e scrittore, si occupa di storia, archeologia e religione. Cultore di opera lirica, ideatore del metodo “Mimerito” sperimentato dal Miur e promotore del progetto di risonanza internazionale “Plinio”, è stato reporter dall'Afghanistan e dall'Himalaya. Ha appena pubblicato il romanzo "Eugénie" (Bibliotheka). Ricercatore del bello, del sano e del vero – per quanto scomodi - vive una relazione complicata con l'Italia che ama alla follia sebbene, non di rado, gli spezzi il cuore

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Un romanzo appassionante scritto da un noto archeologo ci porta a scoprire ciò che rimane di un'antica città fenicia che sorgeva sull'isola di San Pantaleo, nello Stagnone di Marsala.

Parliamo de “I genî di Mozia”, del prof. Lorenzo Nigro de “La Sapienza” di Roma per i tipi de Il Vomere. E’ il secondo romanzo dell’archeologo dopo “Gerico, la rivoluzione della preistoria” nel quale trattava della più antica città del mondo, risalente a 11.500 anni fa e si può dire che sia la definitiva consacrazione in giallo del genere del “romanzo archeologico”.

Esattamente situata fra l'Isola Grande e la costa occidentale della Sicilia, Mozia appartiene alla Fondazione Joseph Whitaker dal nome dell’archeologo e imprenditore inglese che la comprò ai primi del secolo. Questa famiglia anglo-siciliana di imprenditori originari del West Yorkshire ebbe un ruolo importante nel Risorgimento italiano, nell'archeologia, nell'ornitologia, nello sport e nella cultura dell'epoca.

A Mozia, alla fine dell'Ottocento, l'imprenditore Joseph Whitaker volle costruire un suo fortino per rinforzare il controllo sulla regione di Marsala dove si concentravano gli interessi della famiglia Ingham-Whitaker nella produzione del marsala.

Joseph non era un distaccato nobiluomo dedito all’ornitologia, come vuole la storiografia tradizionale, bensì un rivoluzionario libertario per l’indipendenza siciliana e la repubblica italiana, così come il suo amico e contemporaneo Lawrence di Arabia aveva sposato la causa degli Arabi.

 Il secondo scenario in cui si dipana l’indagine nel passato di Lorenzo è la Villa Malfitano, la monumentale e decadente residenza dei Whitaker a Palermo, circondata da un parco rigoglioso di 7 ettari e arredata con pezzi unici provenienti da tutto il mondo nello stile della Belle époque.

Mentre dirige la missione archeologica a Mozia, sulla cuspide occidentale della Sicilia, Lorenzo incontra i fantasmi che abitano l’isola, illustri personaggi del passato – Vincenzo Tusa, Heinrich Schliemann, Giuseppe Garibaldi, Giuseppe Whitaker, le cui vicende si intrecciano con la storia della Sicilia e dell’Italia. Questi lo incaricano di ritrovare il tesoro di cinque milioni di ducati d’oro dei Borbone requisito a Palermo da Garibaldi il 31 maggio del 1860 e mai ritrovato.

La ricerca del tesoro di Garibaldi porterà Lorenzo ad Erice, la montagna che domina la cuspide occidentale della Sicilia e poi anche in Grecia, a Salonicco, e da qui al Monte Athos, che sono descritti con acutezza e stupore per la loro straordinaria bellezza e fascino.

L’archeologo-investigatore inizia un’indagine a tutto campo che, fra ritrovamenti nello scavo, visioni oniriche (di solito dopo lauti pasti) e scoperte inaspettate, lo porta a conoscere la storia segreta dei Whitaker di Villa Malfitano: le imprese di Joseph – detto Pip – e dei garibaldini moziesi, al comando di Nino u’ lione; la dolorosa vicenda di sua moglie Tina, eternamente insoddisfatta per “non essere diventata nessuno”, pur potendo essere uno dei più straordinari soprani della sua epoca, il destino drammatico delle sue due figlie, Norina, fatta sposare per interesse al generale Di Giorgio, un militare che fu ministro della guerra del governo fascista, per riparare uno “spiacevole incidente” e Delia, costretta a difendere l’eredità di suo padre fino all’estremo, e a continuare a vivere nel ricordo di un passato che le due guerre mondiali avevano cancellato.

Sebbene dotata di piccola superficie, Mozia restituisce con generosità continue e preziose testimonianze archeologiche. Appena l’anno scorso, la missione de “La Sapienza “ diretta dal prof. Nigro, aveva individuato un cippo funerario in calcarenite con una delle più importanti iscrizioni fenicie rinvenute nel Mediterraneo centrale, tra le pochissime testimonianze del primo alfabeto del mondo.

L’iscrizione monumentale disposta su quattro linee, recita: «Tomba del “Servo di Melqart” figlio di…». Era l’epitaffio di un re devoto al grande dio di Tiro e se si riuscirà a trovare anche il resto della stele si sarà in grado di dargli un nome. Abdi-Melqart era infatti il dio dinastico di Mozia - ovvero protettore del sovrano - equiparato dai Greci di Sicilia a Ercole. Per questo il re, umilmente, si definiva “suo servo” (come era consuetudine anche in Oriente) per sottolineare il diritto divino della propria regalità.

Quella dei fenici fu, infatti, una vera rivoluzione: si passò da una scrittura “sacerdotale”, a una dettata da esigenze ben più pratiche, collegate soprattutto al commercio. Basti pensare che la scrittura cuneiforme sumera annoverava oltre 600 segni e richiedeva grande perizia per essere scritta, così come quella egizia basata sui geroglifici.

Fu tramite le peregrinazioni commerciali dei Fenici nel Mediterraneo che l'uso della loro scrittura alfabetica si diffuse in Grecia e in Italia, soprattutto tramite gli Etruschi. Tutti gli alfabeti che conosciamo sono derivati dall'alfabeto fenicio.

E oggi, attraverso la scrittura, si rende merito a questi nostri antenati.

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