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La Maschera di Agamennone una burla? Il prof Nigro: forse un "autoritratto" di Schliemann

La spiegazione al mistero di un falso poco credibile

Andrea Cionci
Andrea Cionci

Storico dell'arte, giornalista e scrittore, si occupa di storia, archeologia e religione. Cultore di opera lirica, ideatore del metodo “Mimerito” sperimentato dal Miur e promotore del progetto di risonanza internazionale “Plinio”, è stato reporter dall'Afghanistan e dall'Himalaya. Ha appena pubblicato il romanzo "Eugénie" (Bibliotheka). Ricercatore del bello, del sano e del vero – per quanto scomodi - vive una relazione complicata con l'Italia che ama alla follia sebbene, non di rado, gli spezzi il cuore

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Il 6 gennaio scorso ricorrevano i 200 anni dalla nascita di Heinrich Schliemann, il padre dell’archeologia pre-ellenistica, scopritore di Troia e di tesori tanto incredibili che uno dei suoi reperti più famosi, la Maschera di Agamennone, oggi pezzo forte del Museo Archeologico di Atene, è sospettato, da alcuni decenni, di essere un falso.

Uno dei più affermati archeologi a livello internazionale, il Prof. Lorenzo Nigro de “La Sapienza” di Roma, offre nuova ipotesi, che vi proponiamo in esclusiva: “La maschera potrebbe essere, non solo un falso, ma anche una straordinaria BURLA che resiste da 149 anni”.

Occorre prima inquadrare il tipo umano di quel geniale archeologo tedesco che tanto fece per i monumenti di Grecia e Turchia: a sette anni, affascinato dalle letture di Omero, dichiarò che un giorno avrebbe riscoperto Troia. A 18, si imbarcò come mozzo su una nave per il Venezuela che naufragò sulle coste dei Paesi Bassi. Ad Amsterdam, fu rappresentante di commercio; poliglotta prodigioso e autodidatta, aprì una banca in California trafficando con la polvere d’oro, un dettaglio da non trascurare. In Russia, sposò la figlia di un facoltoso avvocato e fece fortuna come appaltatore dell’esercito zarista durante la Guerra di Crimea.

A 36 anni era così ricco da poter finalmente dedicarsi al suo sogno di bambino. Divorziatosi, nel ‘69 si trasferì ad Atene risposandosi con una bella greca di 30 anni più giovane. In Turchia fu indirizzato dall’archeologo inglese Frank Calvert a scavare su una collina nei pressi di Hissarlik; nel 1873, Schliemann ne aveva scoperte nove, di Troia, una sull’altra: in fondo all’ultimo strato rinvenne migliaia di oggetti d’oro, da lui definiti il Tesoro di Priamo. In realtà, la Troia omerica era quella del II strato, di cui, purtroppo, rimase poco per via dei suoi scavi selvaggi, anche se condotti con i primi criteri stratigrafici. Contrabbandò il tesoro in Grecia - pagando un’indennità alla Turchia di 50.000 franchi - e poi lo portò in Germania (dove nel 1945 sarà confiscato dai sovietici).

Nel 1873, Schliemann si era affermato in Europa come famosissimo archeologo, anche se i colleghi professionisti lo attaccavano ferocemente. Sempre in cerca di nuovi trionfi con cui tacitare gli oppositori, decise di scavare la città degli Achei: Micene. Qui scoprì le “Tombe a pozzo” con gli scheletri dei re antichi e tre preziose maschere funerarie d’oro, tra cui quella da lui attribuita ad Agamennone in persona. 

Tuttavia, come notato dagli studiosi William M. Calder e David Traill, QUI, questa maschera è stilisticamente diversa dalle altre, pur provenendo da tombe coeve: di fattura molto migliore, è ricca di particolari che le altre non hanno, soprattutto quegli strani baffi all’insù, secondo la moda centroeuropea dell’800. E’ provato che Schliemann avesse già fatto produrre dei falsi e spacciato come suoi ritrovamenti dei reperti, invece, acquistati. Secondo vari colleghi, avrebbe anche talvolta nascosto dei pezzi nei suoi siti per poi fingere di ritrovarli. La maschera di Agamennone fu, in effetti, il “botto finale” della sua campagna di scavi a Micene.

Non giova il fatto che il Consiglio archeologico greco ancor oggi rifiuti di far eseguire qualsiasi esame - anche non distruttivo - sul metallo per stabilirne l’antichità. Che Schliemann avesse prodotto un falso è, dunque, molto probabile, considerato il personaggio e i suoi obiettivi, ma c’è un’incoerenza: perché raffigurare il presunto Agamennone con quei baffi impomatati così assurdamente “moderni”? Nessun’opera micenea riporta una simile acconciatura e, per definizione, tutti i falsi cercano di essere CREDIBILI.

La spiegazione più coerente è quella del prof. Nigro: “La Maschera di Agamennone potrebbe essere nient’altro che un “RITRATTO GIOVANILE" dello stesso Schliemann, come potete confrontare nelle foto. I baffi ci sono, l’ovale del viso anche, come nella foto che l’archeologo avrebbe potuto affidare a un parente orafo della moglie qualche giorno prima del «ritrovamento»”. Un ideale pendant del ritratto di sua moglie adorna dei (discussi) “gioielli di Elena”, ma soprattutto, una beffa per i suoi nemici archeologi, un po’ come quella delle false sculture di Modigliani del 1984. Schliemann avrebbe potuto screditare i suoi critici, all’occorrenza, rivelando lo scherzo, ma nel 1890 morì, a soli 68 anni, portandosi il segreto nella tomba. Assumono così un profumo ironico le sue note sulla maschera in “Micene: una narrazione di ricerche” (1880):

“Anche la barba è ben rappresentata, e in particolare i baffi, le cui estremità sono rivolte verso l'alto a punta, a forma di mezzaluna, niente di nuovo sotto il sole. Non ci sono dubbi sul fatto che gli antichi micenei usassero l'olio o una sorta di pomata per acconciarsi i capelli. […] Nessuno dubiterà per un momento che fossero destinate a rappresentare i ritratti del defunto […] Gli antichi orafi micenei potevano fare quanto qualsiasi orafo moderno".

Si chiedeva Calder: “Perché menzionare gli orafi moderni a meno che Schliemann non sapesse che effettivamente un orafo moderno aveva realizzato la maschera?”.

L’autoritratto-beffa è una spiegazione coerente al mistero di “un falso che non sembra un falso”. Il Museo archeologico di Atene, a parer nostro, dovrebbe consentire senza timori l’esame con la fluorescenza a raggi X o sui minerali contenuti nel metallo: se il pezzo dovesse risultare autentico, tanto meglio. In caso contrario, si potrebbe puntare sulla genialità di questo scherzo, che racconta molto di più di una fiabesca attribuzione ad Agamennone: sarebbe il simbolo della necessità costante per gli studiosi di dubitare, dello humor di un grandissimo archeologo sui generis, della continuità del mito che si sviluppa nel corso della storia.

La “Maschera aurea di Schliemann” diverrebbe, infatti, il simbolo plastico di quell’archetipo eroico in cui tutti gli uomini, segretamente, vorrebbero riconoscersi, magari di fronte allo specchio la mattina, per poter dire a se stessi, come fece l’archeologo tedesco con il re di Grecia: “Ho guardato negli occhi Agamennone”.

 

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