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Coronavirus, Italia "zona protetta": le conseguenze sul rapporto di lavoro individuale

Cristiano Cominotto
Cristiano Cominotto

Sono Presidente di A.L. Assistenza Legale, sono nato e cresciuto a Milano, dove sono diventato avvocato cassazionista e giornalista. La mia professione è anche la mia passione. Amo difendere le persone e credo sia importante che ognuno abbia la consapevolezza dei propri diritti e delle possibilità che ha di difendersi dalle ingiustizie quotidiane. Mi considero un innovatore, non riesco mai a guardare le cose dallo stesso punto di vista. Ho creato degli studi legali completamente nuovi e diversi da quelli tradizionali i miei studi sono stati infatti inseriti dal Financial Times tra i top 50 Innovative Law Firm. Mi piace spiegare il diritto in modo semplice, se ci fosse una frase che sintetizza il mio pensiero sarebbe questa: "Non hai veramente capito qualcosa fino a quando non sei in grado di spiegarlo a tua nonna" (Albert Einstein)

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Per quanto puntuali e risolutivi sotto tanti punti di vista, i provvedimenti finora susseguitisi a livello normativo per contrastare e contenere il rischio epidemiologico da COVID-19, lasciano ancora aperte rilevanti questioni.
 
Molti sono gli interrogativi che continuano ad affliggere lavoratori e datori di lavoro su quali siano le implicazioni, specialmente economiche, delle riduzioni o sospensioni dell’attività lavorativa dovute all’emergenza coronavirus sulle sorti dei rapporti individuali di lavoro. Aspetto tutt’altro che irrilevante considerando che ci troviamo davanti a casi di sospensioni per fatto non imputabile al datore di lavoro, ma nemmeno al lavoratore!
 
Già con i precedenti decreti il Governo aveva consentito alle imprese, attraverso l’attivazione della modalità “semplificata” di lavoro agile, di non interrompere l’attività produttiva, pur riducendo drasticamente il rischio di contagi. Nello specifico, il DPCM 23 febbraio 2020 aveva dapprima prescritto l’automaticità dell’applicazione della misura per tutti i datori di lavoro, poi resa discrezionale e provvisoria dai successivi decreti emanati a sostituzione dei precedenti (DPCM 25 febbraio, 1 e 4 marzo 2020).
 
Con l’entrata in vigore del DPCM 8 marzo 2020 - che ha ritenuto necessario procedere ad individuare ulteriori misure a carattere nazionale a causa del carattere particolarmente «diffusivo» dell'epidemia e dell'esponenziale incremento dei casi di contagio - si affianca alla modalità di lavoro agile la raccomandazione ai datori di lavoro, sia pubblici che privati, di promuovere, durante il periodo di efficacia del decreto, «la fruizione da parte dei lavoratori dipendenti dei periodi di ferie e di congedo ordinario» con la sola esclusione del personale sanitario e tecnico, per il quale si prescrive, al contrario, la sospensione dei congedi ordinari, poiché trattasi di «attività  necessarie  a gestire le attività richieste dalle unità di crisi  costituite  a livello regionale».
 
Tale raccomandazione, fino allo scorso 9 marzo rivolta ai soli lavoratori della c.d. zona arancione, individuata dal DPCM 8 marzo 2020 nella zona comprendente la Regione Lombardia ed altre 14 province (Modena, Parma, Piacenza, Reggio Emilia, Rimini, Pesaro e Urbino, Alessandria, Asti, Novara, Verbano-Cusio-Ossola, Vercelli, Padova, Treviso e Venezia) risulta ad oggi estesa, in base a quanto disposto dal DPCM 9 marzo 2020, all’intero territorio nazionale, isole comprese.
 
La crescita esponenziale del numero di contagi ha infatti costretto il Governo ad adottare misure ancora più stringenti. Niente più distinzione tra zona rossa o arancione della penisola e restante parte del territorio nazionale, ma un’unica zona «protetta» interessata dalle stesse restrizioni e comprendente, senza alcuna distinzione, tutto il territorio nazionale. Le misure adottate precedentemente per il contenimento dell’emergenza nelle zone c.d. rosse e maggiormente a rischio vengono pertanto automaticamente estese a tutta la nazione.
 
La prescrizione contenuta nel DPCM 8 marzo 2020, che prescriveva a tutti coloro che si trovassero nella c.d. zona arancione (Lombardia + altre 14 province) di evitare spostamenti su tutto il territorio nazionale a meno che non fossero motivati da ragioni di lavoro, necessità o salute («evitare ogni spostamento in entrata e in uscita dai territori di cui sopra, nonché all'interno dei medesimi territori, salvo che per gli spostamenti motivati da comprovate esigenze lavorative o situazioni di necessità ovvero spostamenti per motivi di salute»), si estende adesso, ad opera del nuovo decreto, a tutto il territorio italiano, passando ad interessare tutte le regioni e province in maniera indistinta.
 
Ne consegue che, attualmente, al datore di lavoro italiano, che per ordine della pubblica autorità si veda costretto a sospendere o limitare la propria attività lavorativa oppure decida di farlo in via puramente precauzionale, restino da percorrere due sole strade: lo smart working oppure le ferie “forzate”. Ma quali sono le conseguenze di ciascuna scelta sul rapporto di lavoro individuale?
 
Nel caso di lavoro agile, non viene in alcun modo intaccata la continuità dell’attività di impresa, per cui risulta pacifico che i lavoratori conservino il diritto a percepire la medesima retribuzione che a loro spetterebbe se svolgessero le stesse mansioni all’interno azienda.
 
La possibilità di ricorrere alla modalità di smart working rimane tuttavia confinata ad una piccola parte del mercato del lavoro, risultando incompatibile per numerose attività, come quelle commerciali, per le quali la sospensione dell’attività lavorativa comporta inevitabilmente un arresto dell’attività stessa.
In tale ultimo caso, pur non potendosi dare corso effettivo alla esecuzione della prestazione, il vincolo contrattuale non subisce alterazioni, potendo invece comportare delle variazioni sul trattamento economico/indennitario eventualmente spettante al lavoratore.
 
In particolare, se la sospensione dell’attività è disposta dalla pubblica autorità o da disposizioni di legge adottate in ottica emergenziale, non imputabile dunque né ad una scelta del datore di lavoro né ad una scelta del lavoratore, si ricorrerà all’applicabilità di ammortizzatori sociali già in vigore, tra cui la cassa integrazione ordinaria e la cassa integrazione in deroga, così come previsto dall’art. 13 del Decreto Legge n. 9/2020.
 
Sempre il Decreto Legge 2 marzo 2020, n. 9 chiarisce poi che, solo per i dipendenti pubblici, le assenze dovute alle misure di contenimento del contagio devono essere considerate come servizio ordinario e dunque regolarmente retribuite, venendo meno la sola indennità di mensa. Lo stesso vale per la quarantena che, per i medesimi soggetti, viene equiparata al ricovero ospedaliero.
 
Più incertezza ruota attorno alla situazione di imprese e attività che, pur non essendo direttamente interessate da sospensioni obbligatorie, decidono di adottare, in via del tutto prudenziale, soluzioni di sospensione o riduzione del lavoro.        
 
Se la sospensione o la riduzione è decisa in maniera unilaterale dal datore di lavoro, la regola generale prevede che la retribuzione sia comunque dovuta.
Tuttavia, non potendosi escludere che una tale decisione sia riconducibile al generale dovere che incombe sul titolare d’impresa di tutelare i propri lavoratori dal rischio biologico (così come previsto dal D.Lgs. n. 81/2008) e di preservarne la sicurezza, si potrà ricorrere, ove possibile, anche in questo caso agli ordinari istituti di legge e contratto collettivo, quali ferie e periodi di congedo ordinario, così come previsto dall’art. 2 lettera s del DPCM 8 marzo 2020.
Ciò significa che molti lavoratori, tenuto conto che le disposizioni del suddetto decreto sono chiamate a produrre i propri effetti fino al 3 aprile 2020, potranno vedersi sottrarre a causa dell’emergenza tutte le ferie a cui hanno diritto durante l’anno.
 
In via residuale, per coloro che non avessero la possibilità di usufruire di un monte ferie o non avessero a disposizione permessi sufficienti, senza la possibilità di attivare la cassa integrazione guadagni, può essere utilmente valutato il principio già sottoposto all’attento esame della giurisprudenza (Cass. 17 luglio 1990 n. 7302; Cass. 23 aprile 1992 n. 4856; Cass. 25 marzo 1992 n. 3695; Cass. 6 agosto 1996 n. 7194; Cass. 9 novembre 1998 n, 11263) secondo cui, in caso di dimostrata impossibilità sopravvenuta a ricevere la prestazione per causa non imputabile al datore di lavoro (artt. 1256, 1463, 1464 del codice civile), questo non sia tenuto a riconoscere la retribuzione agli stessi lavoratori sospesi.
 
Se invece la scelta di non recarsi al lavoro è presa dal dipendente, per mera prudenza o semplice timore, in assenza di provvedimenti di Pubbliche Autorità̀ che ne impediscano la libera circolazione, si darà luogo a tutti gli effetti ad una assenza ingiustificata dal luogo di lavoro. Il lavoratore, in tale ultimo caso, non maturerà alcun diritto alla retribuzione (salvo accordi con l’impresa), potendo addirittura incorrere in conseguenze disciplinari.
 
di Avv. Cristiano Cominotto
Dott.ssa Cristina Sofia Barracchia

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