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Social Dilemma, se il web diventa la nostra discesa agli inferi

L'inquietante documentario Netflix sulla parte non indagata sui social che ci manipolano

Francesco Specchia
Francesco Specchia

Francesco Specchia, fiorentino di nascita, veronese d'adozione, ha una laurea in legge, una specializzazione in comunicazioni di massa e una antropologia criminale (ma non gli sono servite a nulla); a Libero si occupa prevalentemente di politica, tv e mass media. Si vanta di aver lavorato, tra gli altri, per Indro Montanelli alla Voce e per Albino Longhi all'Arena di Verona. Collabora con il TgCom e Radio Monte Carlo, ha scritto e condotto programmi televisivi, tra cui i talk show politici "Iceberg", "Alias" con Franco Debenedetti e "Versus", primo esperimento di talk show interattivo con i social network. Vive una perenne e macerante schizofrenia: ha lavorato per la satira e scritto vari saggi tra cui "Diario inedito del Grande Fratello" (Gremese) e "Gli Inaffondabili" (Marsilio), "Giulio Andreotti-Parola di Giulio" (Aliberti), ed è direttore della collana Mediamursia. Tifa Fiorentina, e non è mai riuscito ad entrare in una lobby, che fosse una...

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 Immagine dal documentario The Social Dilemma Foto:  Immagine dal documentario The Social Dilemma
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Solo due industrie chiamano il loro cliente ‘utilizzatore’: quella delle droghe illegali e quella dei software«.  È questa una delle frasi che attraversano The Social Dilemma, assieme a molte altre che richiamano la tragedia greca e i drammi shakespeariani.

 The social dilemma è il documentario Netflix di Jeff Orlowski che, non senza un deciso frisson d’inquietudine, indaga il lato demoniaco dei social network. Il film s’accende sulle testimonianze potenti  di ex dirigenti di Facebook (c’è quello che ha inventato il “like”) e boss del marketing di Instagram, di ex “capi delle monetizzazione” di Twitter, di inventori di algoritmi di Pinterest e di Google usciti dalla dipendenza e dalla manipolazione dei mostri che avevano contribuito a creare. Il mio “pentito” preferito è tale Tristan Harris, un cervellone nerd dalla barbetta rossiccia che, da ex esperto  di “etica digitale di Google” -cioè da analista delle coscienze delle Silicon Valley- spiega chiaramente come  «cinquanta designers bianchi, dai 20 ai 25 anni in California, hanno preso decisioni che incidono sulla vita di 2 miliardi di persone». E  lo dice davanti ad una telecamera e un tavolino vuoto,  metafora di tutte le menti piallate dai social negli ultimi vent’anni. E quindi si parla di discriminazione, di disinformazione, di gente che «ti si insinua nel tronco encefalico come una slot machine, ti dà dipendenza, e fa business cambiandoti le abitudini». Alle interviste autentiche si alternano immagini di fiction. Per esempio quella di una graziosa famigliola americana che non riesce a disconnettersi,  con il figlio schiavo schiavo a scuola dei post su WhatsApp e del controllo di Facebook sulla sua vita; mentre la figlia adolescente immerge la propria giornata sulle foto a culo di gallina di Instagram, e  distrugge la scatola dentro cui i genitori avevano tentato di blindarle il telefonino. Poi appare un prof di Stanford che informa dell’aumento del 70% tra gli adolescenti dipendenti dai social. Poi eccoti un’altra docente  che ti spiega che «quando ti taggano, ti infilano uno spot in un post», fanno un  lavoro di Growth Hacking, di hackeraggio delle menti a cui si strappano big data e dignità.

Infine scorrono le immagini delle gravi violenze perpetrate in Myanmar a causa delle campagne d’odio e di notizie false circolate su Facebook, di Trump, di Bolsonaro, di un gruppo di terroristi psichici che ci avvertono che viviamo in una trappola mortale. The social dilemma è interessantissimo. Se si riesce ad arrivare alla fine senza ingoiare un Prozac...

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