Gloria effimera

Hemingway oggi sarebbe ammazzato dal politicamente corretto

Francesco Specchia

Il vecchio a torace villoso che ti fa guardare il mondo dalla canna della doppietta, imbracciata dopo essersi scolato una bottiglia di bourbon. Il giovane killer della savana, chinato sulla testa di un leone appena abbattuto per respirare lo spirito della caccia. Il playboy dal baffo umettato, che cambiava le donne come le camicie. Il milite volontario che si divertiva da matti sul fronte di guerra quando “è esplosa un’intera fabbrica di munizioni. Oh ragazzi !!! Sono felice di esserci”.

Alla luce dell’oggi non c’è niente, in circolazione, di più politicamente scorretto dei mille volti di Ernest Hemingway.

Partono le manifestazioni per i 60 anni dalla morte del grande scrittore (consiglio, su tutte, domani su Rai5 il ciclo di sei documentari, al lunedì sera, My name is Ernest , il primo è stato sull’Hemingway in Veneto tra le montagne di Cortina e le trincee del Carso). Ed ecco che, mentre il petto ci si gonfia d’orgoglio per la sua prosa limpida e invincibile, urge una demitizzazione del premio Nobel morto suicida fin troppo rimproverato del fatto che il personaggio pubblico prendesse il sopravvento sullo scrittore. E la sua affettuosa revisione innesca una domanda. Come verrebbe accolto uno come Hemingway nell’era della cancel culture, del pacifismo nei cuori e nelle piazze, del genere fluido, del Black life Matter? Il machismo di Hemingway lo bloccherebbe alla soglia dei principali editori americani - quelli per intenderci che censurano i “negri” di Mark Twain e lasciano sradicare le statue di Colombo- ; quel suo trattare le donne come oggetti sessuali e quel suo virilismo (“Un uomo si scontra con le forze del mondo, chiamate destino, e le affronta con coraggio” dice di lui Steinbeck) riempirebbero le piazze di femministe impazzite. Solo l’idea di voler misurare il pene dell’amico Scott Fitzgerald per considerarne l’adeguatezza amatoria messa in dubbio dalla di lui moglie Zelda, attizzerebbe il dibattito pubblico sulla prevalenza fallica. E –anche se poi il nipote allungò l’ombra della bisessualità sul nonno proprio nel rapporto con Fitzgerald- le associazioni Lgtb rispolvererebbero la sua presunta omofobia; magari ripescandone la famosa lettera del 1925 in cui il giovane romanziere utilizzava uno dei suoi animali preferiti, il toro, per sbeffeggiare e attaccare, tra gli altri, uno dei suoi mentori, lo scrittore-critico Ford Madox Ford. Hemingway si lanciava, nella lettera inedita, in un paragone “tra le virtù dei tori e i vizi, le immoralità delle frequentazioni omosex” di Ford e di altri colleghi letterati. E il vecchio Ernest che vergò Per chi suona la campana e Addio alle armi (riscritto 39 volte) il libro più antibellico del mondo, verrebbe sicuramente accusato d’esser un guerrafondaio solo per essersi offerto come corrispondente dei giornali su tutti i fronti. “Sappiamo che la guerra è brutta eppure a volte è necessaria” scriveva “ed è il miglior soggetto possibile. Raggruppa il massimo del materiale e accelera l’azione e tira fuori cose di ogni tipo che normalmente dovresti aspettare una vita per vedere”. Immaginate un frase del genere: forse, di ‘sti tempi, potrebbe pronunciare soltanto Houellebecq, ma a rischio d’essere bandito da tg e dalle piazze mediatiche a prevalenza democratica. Per non dire della passione di Hemingway per la boxe. Il suo incontro (in cui uscì sconfitto) sul ring nell’estate del ’29 con lo scrittore canadese Morley Callaghan, sarebbe considerato a sinistra non un afflato guerriero e virile, ma il gesto di un violento psicopatico. Ma lo stesso scrittore verrebbe democraticamente aggredito anche dai repubblicani che ne avessero scoperto il passato da spia del Kgb come membro operativo messo sotto osservazione dal direttore dell’Fbi di J.Edgar Hoover. Eppoi c’è il suo uso delle parolacce, della sintassi ruvida, del vilipendio. Hemingway gioisce quando, finalmente, il direttore di una rivista smette di tormentarlo per l’abuso dell’epiteto “figlio di puttana” nei dialoghi. E c’è un momento in cui lui, inferocito, scrive una lettera al senatore Joe McCarthy, sfidandolo: “In realtà non penso che lei abbia il fegato per battersi con un coniglio; figuriamoci con un uomo. Sono vecchio ma mi piacerebbe darle una lezione veloce”, che è un po’ come inviare, oggi, una minaccia via social a Letta o al gruppo parlamentare di Leu.

Hemingway, oggi, verrebbe massacrato dagli ambientalisti e dagli animalisti. In Morte nel pomeriggio descrive le corride e la tauromachie di Pamplona come “l’arte che lega la vita alla morte. La corrida è una tragedia, non è uno sport. Il torero è l'uomo che vive in stretta intimità con la morte, e reca sul viso le tracce di questa intimità…”. Se ieri la sua prosa nell’arena era un segno degli dei, oggi subirebbe come minimo un’interrogazione parlamentare. La sua passione per l’alcol (“una mezza bottiglia di Champagne avanzata è un pericolo per l’uomo”) e il tabagismo lo renderebbero il nemico numero uno dei Verdi e dei vegani. E, se negli anni 50, poteva evocare riti e voluttà ancestrali, oggi brucerebbe nel decoro sociale la sua cocciuta difesa della caccia (“è particolarmente pericoloso non cacciare”). Una difesa impressa in mille fotografie appese al muro sotto il naso di un’antilope imbalsamata, da dove lo scrittore sovrasta animali ammazzati sotto il sole africano. Anzi, la sua stessa idea del continente nero viene in questi giorni messa in discussione dalla Nobel sudafricana Nadine Gordimer; la quale l’accusa di non avere «mai veramente compreso l'Africa». Per Gordimer, Ernest era innamorato delle sua terra, ma “ne fece qualcosa che corrispondeva ai propri bisogni e desideri, senza legami con la realtà: Hemingway scelse piuttosto un'Africa da cartolina, con un leone che balza fuori da un cespuglio spinoso”. Alè, un’altra rasoiata.

 La vera verità è che l’eroico Hemingway, oggi, sarebbe un talento fuori posto e  dal tempo. La sua ultima intervista sul New Yorker, prima del suicidio (per cui sarebbe avverso anche ai cattolici tradizionalisti e ai suprematisti) diventa emblematica: “Mi piacerebbe vedere nuove battaglie, cavalli, balletti, dame, toreri, pittori, aeroplani, figli di puttana, personaggi da bar, grandi puttane internazionali, ristoranti, fiumi di vino, cinegiornali, e non dover mai doverci scrivere una riga a riguardo”, disse, “vorrei scrivere tantissime lettere ai miei amici e ricevere le loro risposte. Vorrei essere capace di fare l’amore fino a ottantacinque anni, come Clemenceau. E non voglio essere come Bernie Baruch. Non mi siederò sulle panchine al parco, ma potrei andarci a sfamare i piccioni, di tanto in tanto. E non avrei neanche la barba lunga, sarei solo un vecchio che non somiglia a Shaw”. Hemingway riteneva fosse un dovere perdere l’anima con intelligenza, “venderla come si venderebbe un’opinione da difendere”. Non so quanto la sua anima, per quanto pesante, oggi possa incontrare il favore del mercato…