Parabole intellettualissime

Federico Moccia si laurea su Federico Moccia (ma resta umile...)

Francesco Specchia

L’importante, nella vita, è restare umili. E, magari anche - restando umili - evitare d’incazzarsi se ti laurei con una tesi in Letter moderne su te stesso non raggiungendo il massimo dei voti. Eppure, sempre restando umile, Federico Moccia, lo spremiagrumi dei sentimenti, il cuore di panna della nostra letteratura, la versione maschile di Liala s’è laureato nell’esaltazione del suo genio.

E - Moccia su Moccia - non ha preso il massimo dei voti, ma un pur buono 107 nella discussione finale. E questo nonostante abbia «trovato dei professori speciali, che hanno ascoltato la discussione della mia tesi divertendosi, vedendo le difficoltà di due scrittori che in tempi diversi parlavano d’amore e che all’inizio non hanno trovato una casa editrice e alla fine hanno incontrato il successo». Solo in un successivo, verecondo inciso, Moccia dirà che “l’altro” scrittore suo pari era Jack London. Il titolo completo della tesi è, infatti, Due visioni comparate dell’amore: Jack London e Federico Moccia, differenze e affinità di stile, visione e ispirazione attraverso il tempo. E qui io mi immagino che, ovunque egli sia, London, dopo aver subito l’equiparazione di Martin Eden con Tre metri sopra al cielo o di Zanna bianca con Scusa se ti chiamo amore, si arrotoli con una botta d’ansia la sua sigaretta di tabacco del Klondike. E, all’ennesimo confronto fra i pregevoli programmi tv e film cinephile del figlio di Pipolo e delle terrazze romane – Ciao Darwin, I cervelloni, Scusa ma ti voglio sposare be’, il vecchio Jack metta mano istintivamente alla colt 45 di quando faceva l’inviato nella guerra russo-giapponese o il cercatore d’oro ai confini dell’Alaska.

Beninteso. Moccia ha spiegato di non aver voluto affatto compararsi al vecchio London maestro di stile. Ché era soltanto «un modo diverso di raccontare l’amore. I due protagonisti, Martin Eden come Stefano Mancini, sono cambiati per amore di una donna». Che, peraltro è un concetto presente nel 90% dei romanzi. Qualcuno ha ricordato che, qualche anno fa, pure la stella del football Robert Lewandowski si laureò con una tesi su stesso; omettendo di dire forse c’è un motivo se Lewandowski non abbia avuto il Pallone d’oro. Comunque, all’annuncio mocciano postato sui social (con tanto di corona d’alloro posata sul testone glabro di Federico nostro) ecco un florilegio di post dall’ironia fulminante circa l’improvvisa tumescenza del suo ego: «110 metri sopra l’Università», «Tre metri sopra l’ego», «Ho voglia di me». Qualcuno si spinge a rammentare gli esordi del nostro come assistente alla regia di Castellano e Pipolo in Attila flagello di Dio, da cui la famosissima scena in cui il barbarico Diego Abatantuono scandisce ai romani il suo nome: «A come atrocità, doppia T come terremoto e tragedia, I come iraddiddio...». E qui il pensiero ritorna a London, abbastanza alterato, mentre indossa i guantoni come nel Romanzo di un boxeur. Ma il punto vero è capire, come scrive Il Foglio, se «La vera questione è se, per conoscere la propria opera, un autore abbia bisogno di scrivere una tesi al riguardo?». E, soprattutto, alla fine: la tesi era sperimentale o compilativa? Perché cambia, eh...