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Fregature allo sportello, il test per l'investitore non serve. Nel 2012 l'allarme Consob: solo un questionario su dieci è corretto, c'è pericolo di "rischi sistemici"

FRANCESCO DE DOMINICIS
FRANCESCO DE DOMINICIS

A Libero dal 2007, è in forza alla redazione di Roma dove si occupa di economia e soprattutto di banche. Il nome di questo blog, Baraonda bancaria, è ripreso dal titolo di un libro scritto nel 1960 da Alberto de' Stefani nel quale l'autore racconta la sua esperienza nel salvataggio del Banco di Roma negli anni 20: è la storia di intrecci politici e gestioni fuori legge. Dopo un secolo, nell'industria finanziaria italiana, non sembra cambiato granché.

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Francesco De Dominicis twitter@DeDominicisF Quando chiedi un mutuo alla banca, ti vengono chieste garanzie e se non paghi ti portano via la casa. Se presti tu i soldi alla banca comprando obbligazioni e la banca fallisce o viene "risolta", tu perdi tutto. Sarà un po' brutale, però è questa la sensazione diffusa tra i clienti delle banche italiane alla luce dell'operazione di salvataggio di Banca Marche, CariChieti, CariFerrara e PopEtruria. Di più, magari con una provocazione, si potrebbe dire che il banco vince sempre, come al casinò. E in effetti gli istituti di credito, specie i manager che li guidano portandoli al dissesto, non pagano mai (o quasi) il conto finale. Come al solito, bisogna sperare che sia la magistratura a fare chiarezza. I tempi, tuttavia, non sono mai brevi e i cavilli legislativi spesso aiutano chi vuole mandarla per le lunghe, rincorrendo le prescrizioni. Resta il fatto che la "risoluzione" (o fallimento pilotato) delle quattro banche, determinata dal decreto del governo approvato domenica 22 novembre, sembra in grado di rivoluzionare il rapporto tra banche e clienti. C'è in gioco la fiducia e non si scherza, perché per le banche è l'asset principale senza il quale non riuscirebbero più a raccogliere denaro da far circolare sul versante dei prestiti. Si cerca una svolta. Le attuali regole sui rischi finanziari hanno fallito. Nel 2007 è entrata in vigore la direttiva europea Mifid (markets in financial instruments directive): il cuore di quel pacchetto normativo era la patente per l'investitore. Un test obbligatorio a cui vanno sottoposti tutti i clienti delle banche per individuare il profilo di rischio e quindi per consentire agli operatori bancari di selezionare quali prodotti proporre allo sportello. Non è servito a niente. Ma non lo scopriamo oggi, dopo lo scandalo dei 10mila risparmiatori che hanno perso quasi 800 milioni di euro in obbligazioni subordinate delle quattro banche salvate e dopo il suicidio di Luigino D'Angelo a Civitavecchia (che con la PopEtruria si era giocato 100mila euro). Che la Mifid, almeno in Italia, non funzionasse affatto lo sappiamo sin dal 2012. Quando un report della Consob svelò come già allora, a cinque anni dall'avvio della patente finanziaria, solo un questionario su 10 era correttamente proposto in banca. Secondo la Commissione presieduta da Giuseppe Vegas - oggi accusata dalla Banca d'Italia di aver fatto poco sul versante della trasparenza dei prodotti finanziari - il 90% dei questionari non raggiungeva la sufficienza per chiarezza, efficacia e validità. L'authority era stata piuttosto esplicita nel lanciare un allarme rosso che, alla luce dei fatti di oggi, è rimasto drammaticamente inascoltato. Il report evidenziava la necessità di un'applicazione più rigorosa della direttiva Mifid sugli strumenti finanziari. Ciò perché da una profilazione distorta dei clienti da parte degli intermediari derivano, diceva la Commissione, "conseguenze anche a livello macro'' in termini di rischio sistemico. Lo studio Consob aveva considerato i questionari di un campione di 20 intermediari italiani che aderivano formalmente alle previsioni della Mifid, ma erano risultati in molte domande ''vaghi o imprecisi'', con riferimenti tecnici che compromettevano la valutazione o richiedevano al cliente di esprimere un giudizio su se stesso. E' molto probabile che sia rimasto disatteso anche l'appello della stessa Commissione a "evitare l'auto-valutazione e affinare la rilevazione delle conoscenze del cliente sia di specifici strumenti finanziari sia di alcune nozioni finanziarie di base'' come la relazione tra rischio e rendimento o il principio di diversificazione del rischio. Insomma, alla Consob era tutto chiaro. Sapevano per filo e per segno già tre anni fa che i test erano una bufala. Viene da chiedersi, dunque, se le regole - da sole - siano sufficienti a risolvere tutti i problemi dell'industria finanziaria italiana. In un'intervista al Sole24Ore, oggi, il presidente dell'Abi, Antonio Patuelli, suggerisce di scrivere a caratteri cubitali sui prospetti informativi che taluni prodotti sono a rischio. Patuelli dice che si dovrebbe imitare quanto fatto coi pacchetti di sigarette: da "Nuoce gravemente alla salute" a qualcosa tipo "prodotto rischioso". Come al solito, quando le uova sono rotte sul pavimento, i banchieri chiedono nuove leggi, più stringenti. Lo hanno già fatto in passato e le hanno avute (da Cirio-Parmalat agli scandali del 2005). E sono stati sistematicamente capaci di aggirarle nelle pratiche allo sportello.

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