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Tutto quello che è sbagliato nel salvataggio delle banche all'amatriciana

FRANCESCO DE DOMINICIS
FRANCESCO DE DOMINICIS

A Libero dal 2007, è in forza alla redazione di Roma dove si occupa di economia e soprattutto di banche. Il nome di questo blog, Baraonda bancaria, è ripreso dal titolo di un libro scritto nel 1960 da Alberto de' Stefani nel quale l'autore racconta la sua esperienza nel salvataggio del Banco di Roma negli anni 20: è la storia di intrecci politici e gestioni fuori legge. Dopo un secolo, nell'industria finanziaria italiana, non sembra cambiato granché.

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Matteo Renzi Foto: Matteo Renzi
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Francesco De Dominicis twitter@DeDominicisF La politica monetaria è  decisa a Francoforte, la leva fiscale è di fatto bloccata da Bruxelles. A Roma resterebbero gli investimenti pubblici, per cercare di far ripartire l'economia italiana (che poi la sola idea fa un po' ribrezzo, ma non esistono molte alternative). E però usiamo – o, meglio, il governo di Matteo Renzi ha deciso di usare - la Cassa depositi e prestiti (che potrebbe e dovrebbe servire proprio per muovere risorse pubbliche) per salvare le banche. Il governo ci sta girando intorno da mesi e cincischia attorno a una decisione che, forse, andava presa qualche mese fa e non – come al solito – in piena emergenza, col pressing della speculazione finanziaria. La fretta non è mai foriera di successi, semmai di soluzioni pasticciate, all'amatriciana. Peraltro la Cdp – una sorta di fondo sovrano italiano – muove in parte risorse pubbliche e in parte private, cioè i risparmi postali dei pensionati, dei giovani e pure degli immigrati. La spa, controllata all'80% dal Tesoro e dal restante 20% dalle fondazioni bancarie, dovrebbe finanziare gli enti locali (regioni e comuni) e poi impegnarsi, attraverso vari  strumenti creati negli ultimi anni, sia nel finanziamento di infrastrutture pubbliche e grandi opere (strade, reti) oppure investire nel capitale di aziende più o meno strategiche. La crisi finanziaria, tuttavia, ha mischiato le carte in tavola. E il programma iniziale viene cambiato. “Si tratta di mettere in sicurezza il sistema bancario per evitare un collasso all'intera economia” è il mantra che va di moda ripetere in queste ore da una parte per giustificare l'intervento dall'altra per ammorbidire l'opinione pubblica di fronte a un'operazione quanto meno singolare. Lo è perché quella delle banche è una emergenza “pilotata”: viene cavalcato qualche problema generale (effetto Brexit) e qualche caso singolo (Monte dei paschi di Siena) per sostenere che non c'è più tempo da perdere. Dicono, perciò, che è interesse nazionale. Ma invece di mettere soldi pubblici direttamente nel capitale delle banche , li iniettano dentro il fondo Atlante o in una creatura simile (Giasone). Un fondo creato dagli stessi istituti per salvarne altri. Tutto ciò con un solo, preciso obiettivo: lavare i panni sporchi in casa. Sì perché se una banca fallisce o viene “risolta” con le nuove regole europee (bail in) c'è il rischio (per chi ha comandato) di andarsi a scontrare con la magistratura oppure con la vigilanza della Banca centrale europea (che pare muoversi con modalità “differenti” rispetto alle abitudini della “nostra” Banca d'Italia). Sta di fatto che a questo grande convivio (Atlante e declinazioni varie), i grandi banchieri hanno chiamato a partecipare anche lo Stato che ha messo una fiche iniziale di 500 milioni di euro con la Cdp e ora è chiamato a mettere una seconda “posta” ben più consistente (3-5 miliardi) sempre con la spa del Tesoro che poi è guidata da due banchieri: Claudio Costamagna e Fabio Gallia. Non solo. Altro denaro arriverà direttamente dalle casse dello Stato, vuoi attraverso le coperture assicurative sulla liquidità, vuoi con un altro mezzo miliardo oggi in pancia alla Sga (una spa pubblica in passato utilizzata per salvare il Banco di Napoli). La spacciano come soluzione di mercato, ma in realtà è un modo come un altro per dire ai top manager degli istituti di credito: continuate a fare quel che volete, tanto i buchi di bilancio li tappano i contribuenti.

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