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Quelle "Baby" da liceo che mi ricordano tanto "Porky's"

Luci e ombre della fiction Netflix tratta dal caso delle baby prostitute del Parioli

Francesco Specchia
Francesco Specchia

Francesco Specchia, fiorentino di nascita, veronese d'adozione, ha una laurea in legge, una specializzazione in comunicazioni di massa e una antropologia criminale (ma non gli sono servite a nulla); a Libero si occupa prevalentemente di politica, tv e mass media. Si vanta di aver lavorato, tra gli altri, per Indro Montanelli alla Voce e per Albino Longhi all'Arena di Verona. Collabora con il TgCom e Radio Monte Carlo, ha scritto e condotto programmi televisivi, tra cui i talk show politici "Iceberg", "Alias" con Franco Debenedetti e "Versus", primo esperimento di talk show interattivo con i social network. Vive una perenne e macerante schizofrenia: ha lavorato per la satira e scritto vari saggi tra cui "Diario inedito del Grande Fratello" (Gremese) e "Gli Inaffondabili" (Marsilio), "Giulio Andreotti-Parola di Giulio" (Aliberti), ed è direttore della collana Mediamursia. Tifa Fiorentina, e non è mai riuscito ad entrare in una lobby, che fosse una...

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Le due protagoniste al lavoro Foto: Le due protagoniste al lavoro
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“Viviamo in un acquario. Ma sogniamo il mare. Per questo dobbiamo avere una vita segreta”. Questa frase assai lirica non è la metafora dei renziani in uscita dal Pd, ma l'incipit di Baby, la serie Netflix che non dovreste far mai vedere alle vostre figlie in età puberale. Baby è un prodottino oscuro e patinato, figlio del più pruriginoso fatto di cronaca degli ultimi anni: il giro delle squillo-bambine al quartiere Parioli. Trattasi di sei puntate belle cariche di borghesia marcia, di scuole private dove si respirano sesso e coca nei festini, di trasgressione soffiata nella trama al ritmo di Girls Just Want to Have Fun,  le ragazze vogliono divertirsi. Una saga moderna ma vecchia quanto il mondo, che vede due liceali amiche Chiara e Ludovica - l'una eterea regina dell'atletica e l'altra molto predisposta alle fellatio con coetanei ricchi e vigliacchi- entrambe con modelli genitoriali non esattamente esemplari  e pronte a spezzare la routine prostituendosi con maturi esponenti della “Roma godona” come direbbe Dagospia. Nell'immaginario liceo classico “Carlo Collodi”, dove si frequentano i corsi in divisa da college e si viene accompagnati dall'autista di papà, nulla è come sembra. C'è il figlio dell'ambasciatore, un tempo coatto, a cui fregano il motorino per aver cercato di soppiantare lo spacciatore ufficiale della scuola. C'è il figlio del preside oppresso dal padre e malvisto dal resto del cosmo. C'è la madre separata che scende dalle terrazze romane zeppa di arroganza radical chic, di filosofia yoga e di botulino; la quale madre, di fatto, spinge la figlioletta verso il gorgo del vizio seppur ben pagato. Ci sono, in Baby, anche soluzioni tecnico-registiche ardite, come l'inserimento di Instagram stories o di video amatoriali porno di queste aspiranti Paris Hilton esposte al ludibrio del web nel tripudio dello shaming, della vergogna on line. Gabbie dorate da benestanti, frustrazioni latenti, incomunicabilità trasudano ad ogni assai sofisticata inquadratura. Trasudano troppo. Il problema è che, oltre che di estetica pura, Baby è ingolfata di luoghi comuni. E su queste ragazzine lucciole nelle notti stroboscopiche di Roma, non c'è una posizione chiara della sceneggiatura; sono sì mignotte, ma appena appena. Io più che Lolita qui ci ho rivisto scene intere di Porky's questi pazzi pazzi porcelloni, film cult della mia adolescenza. Ma non so se per il regista Andrea De Sica questo sia un complimento…                          

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