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Fuori di testi- Ma quant'è scritto male il Festival di Sanremo

Belle canzoni, brutti copioni alla kermesse

Francesco Specchia
Francesco Specchia

Francesco Specchia, fiorentino di nascita, veronese d'adozione, ha una laurea in legge, una specializzazione in comunicazioni di massa e una antropologia criminale (ma non gli sono servite a nulla); a Libero si occupa prevalentemente di politica, tv e mass media. Si vanta di aver lavorato, tra gli altri, per Indro Montanelli alla Voce e per Albino Longhi all'Arena di Verona. Collabora con il TgCom e Radio Monte Carlo, ha scritto e condotto programmi televisivi, tra cui i talk show politici "Iceberg", "Alias" con Franco Debenedetti e "Versus", primo esperimento di talk show interattivo con i social network. Vive una perenne e macerante schizofrenia: ha lavorato per la satira e scritto vari saggi tra cui "Diario inedito del Grande Fratello" (Gremese) e "Gli Inaffondabili" (Marsilio), "Giulio Andreotti-Parola di Giulio" (Aliberti), ed è direttore della collana Mediamursia. Tifa Fiorentina, e non è mai riuscito ad entrare in una lobby, che fosse una...

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Raffaele, Baglioni, Bisio sul palco Foto: Raffaele, Baglioni, Bisio sul palco
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Le canzoni sono la vera economia circolare del Festival di Sanremo. Prendono i testi, li armonizzano in una lunga filiera di musica e applausi e spremute di cuore (come direbbe Marco Ferradini, mai una volta a Sanremo, mi pare) e li restituiscono al mercato in forma di curve d'ascolto. Non è un caso che Abbi cura di me, la canzone di Cristicchi, poesia pura (“Sono solo quattro accordi ed un pugno di parole/Più che perle di saggezza sono sassi di miniera/ Che ho scavato a fondo a mani nude in una vita intera”), sia uno dei must, a voce tremante, della share di questo Festival.  Qui si parla di testi. Le parole sono importanti. Sicché, mi risulta un po' bizzarro che, tolti quelli delle canzoni, i testi veri e propri del programma latitino. Di più.  I testi infilati nelle gag dei conduttori, di raccordo alle canzoni e alle inserzioni pubblicitarie, quelli che, insomma, dovrebbero essere il colorato fil rouge della kermesse; be', quei testi brillano per cocciuto imbarazzo. L'apoteosi si è avuta con la battuta di Virginia Raffaelli, eccelsa in tutto il resto, che salutava i vocalist dell'orchestra Rai: “Grazie, grazie Graziella e grazie al Coro”, parafrasando un classico della commedia sexy all'Alvaro Vitali. Ecco, lì ho messo mano al revolver. Poi ci sono altre uscite della Raffaele sulle somiglianze dei musicisti con in vip “Si vedono solo le teste, come i Muppets”, “Abbiamo Enrica Bonaccorti, il protagonista di Cast Away e Rossano Rubicondi”, con la gag che si esaurisce nell'indicare “il chitarrista più inquadrato del festival Luca Colombo, da 13 anni in forza all'ensemble sanremese”, battuta proferita con un allegro accanimento che neanche Peppe Vessicchio ai vecchi tempi. Eppoi, ecco lo sfiancato “cavallo della Mannoia” descritto da Baglioni; l'evocare la polemica leghista scomodando la Lega dell'amore di Elio e le storie Tese; la gag con la pernacchia; la di solito efficace -ma qui fuori sincrono- volgarità di Pio e Amedeo; Pippo Baudo movimento semovente introdotto da un “omaggio” tiratissimo a Lelio Luttazzi. Infine gli infiniti, inutili, letali tre minuti che Claudio Bisio, evidentemente risentito, dedica alla lettura, a sfottò, dei tweet degli odiatori del Festival, roba che degli stessi odiatori ha soltanto, probabilmente, aumentato il numero. Anche lo stesso monologo di Bisio sul presunto terzomondismo politico di Baglioni era abbastanza telefonato e non è stato -diciamo- all'altezza dei dialoghi teatrali di Claudio tratti da Pennac. Ecco, vorrei capire: per scrivere ‘sta roba quanti autori ha Sanremo? …                                

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