Complimenti per la trasmissione

The Good place, quando la burocrazia sbaglia paradiso

Francesco Specchia

Già è abbastanza imbarazzante morire per essere stati investiti da un camion che trasporta prodotti contro la disfunzione erettile. Figuriamoci, poi, quando, dopo morta, scopri che, per un problema burocratico, nell’aldilà devono aver confuso le pratiche; e tu ti ritrovi, senza alcun titolo, in un paradiso hollywoodiano vittima di uno spiazzante scambio di persona. Sta proprio qui, in questo semplice ma fulminate espediente narrativo, il cuore di The Good Place, la serie nascosta tra le pieghe di Netflix che sdrammatizza il concetto stesso di “Paradiso”. Cioè il “posto giusto” del titolo contrapposto al posto sbagliato, l’inferno ascoltato solo dal citofono tra urla dei dannati e clangore dei forconi. Qui iniziano le avventure diEleanor Shellstrop, una commessa moralmente discutibile e di un egoismo ributtante che si ritrova a vivere il destino ultraterreno di una sua omonima avvocatessa amante dei diritti civili, benefattrice dei bambini affamati del terzo mondo e con una spiccata passione per il minimalismo edilizio (vive in un monolocale spartano) e i clown. Alla commessa, che finge di essere l’altra per non scivolare all’inferno, affidano un’“anima gemella” scettica che poi è uno studente africano di etica e filosofia. E intanto l’ospite paradisiaco – un tale Michael con occhialini e cravattino che da vivo faceva l’architetto, chiaramente ispirato all’arcangelo Michele, a sua volta ispirato a un vecchio film con John Travolta- la porta a spasso per dei Campi Elisi che somigliano sorprendentemente alla laccatissima provincia americana fatte di sorrisi, famigliole felici villone per ricchi alternate a casette con giardino. Metteteci, a cotè, monaci buddisti silenti, gente che vola per fare pratica angelica, caricature di donne intellettuali indo-newyorkesi e una gragnola di battute velocissime e paradossale; ed ecco servita una serie subito ben accolta da pubblico e critica. Certo, The Good Place non è nulla di innovativo. Da Il cielo può attendere di Lubitsch a Il paradiso può attendere di Warren Beatty, il cinema si è sempre preso carico degli errori celesti. La tematica della morte trattata col filtro dell’ironia è un grande classico. La differenza, qua, sta nello scopo della serie ideata da Mike Schur: esplorare il concetto di “brava persona” e cercare di adattarlo alla società contemporanea. Un esercizio di stile difficilissimo…