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I nativi americani affondano Baracke la sua ridicola battaglia anti-Redskins

Glauco Maggi
Glauco Maggi

Giornalista a NYC per Libero, autore di Figli&Soldi (2008), Obama Dimezzato (2011), Guadagnare con la crisi (2013), Trump Uno di Noi (2016). Politica ed economia. Autori preferiti: Hayek, M.Friedman, T.Sowell

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La battaglia piu' insulsa delle giubbe liberal della correttezza politica e' finita con una disfatta. Vi ricordate quando eminenti politici Democratici – Barack in testa, affiancato dal capo dei senatori Harry Reid e dalla capa dei deputati Nancy Pelosi - lanciarono una campagna nazionale perche' la squadra di football americano di Washington cambiasse il nome Redskins (Pellerossa) che aveva avuto dalla fondazione nel 1933? La motivazione era che la parola offendeva i “native americans”, la popolazione discendente dalle tribu' che vivevano qui prima dell'arrivo di Cristoforo Colombo. Per i DEM, si sa, le parole sono tutto, e questo presidente ha elevato ad arte la ‘politica delle definizioni', dal NON uso dell'aggettivo islamico quando deve parlare degli attacchi terroristici, pardon degli “eventi violenti causati dall'uomo”, al recentissimo “individui coinvolti con la giustizia” invece che criminali condannati. Dal serio di Osama e delle galere al faceto della palla ovale, l'accanimento terminologico dei liberal aveva da tempo investito i “Redskins”, che con quel nome hanno vinto due Campionati e 3 Superbowl, sempre osannati dai loro tifosi, soprattutto orgogliosi quando battono i Dallas Cowboys. Il Washington Post, che insieme a una cinquantina di senatori DEM e uno stuolo di giornalisti sportivi politicamente corretti era salito da anni sul carro della richiesta del cambio di nome, ha finalmente fatto una cosa banale e giusta: un sondaggio su un campione dei 5,4 milioni di americani con ascendenza pellerossa per chiedere direttamente a loro, le supposte vittime, se si sentono offese o meno dall'uso del nome della squadra della capitale. Risultato: nove su dieci NON sono offesi dal nome Washington Redskins. Peraltro, questa e' la stessa conclusione di un precedente sondaggio, a cura dell'Annenberg Public Policy Center, tenuto 12 anni fa. Come dire che neppure il bombardamento mediatico dei “politicamente corretti” dell'era obamiana, ne' la sentenza di un giudice federale contrario all'utilizzo commerciale del marchio, hanno scalfito il buon senso dei nativi. Piu' di 7 su 10 degli indiani interpellati sono andati oltre: per loro e' proprio la parola Redskin, di per se', a non mancare di rispetto agli indiani. E un numero ancora piu' alto di intervistati, 8 su 10, non si offendono neppure se un americano NON nativo li chiama cosi'. I sondaggisti del Washington Post hanno detto che le risposte sono state costanti a prescindere dall'eta', dal reddito, dalla educazione, dal partito politico e dalla vicinanza alle riserve indiane. Attraverso tutti i gruppi demografici, la larghissima maggioranza dei nativi americani ha assicurato che il nome del team non li offende, e tra loro ci sono l'80% di chi si identifica come liberal, l'85% dei laureati, il 90% degli iscritti in una tribu', il 90% di quelli che non sono tifosi del football, e il 91% di quelli con eta' tra i 18 e i 39 anni. “Sono orgogliosa di essere una Native American e anche orgogliosa dei Redskins. Non ho vergogna di quel nome, che mi piace ”, ha detto Barbara Bruce, un'insegnante della tribu' Chippewa che ha vissuto nella riserva del Nord Dakota per molti anni della sua vita, rispondendo al sondaggio del giornale. La donna, 70 anni, al pari di tantissimi altri interpellati, e' favorevole alle immagini dei pellerossa negli sport perche' offre loro una certa misura di attenzione in una societa' dove si sentono raramente rappresentati. Il ridicolo, ma si sa che la correttezza politica e' una miniera di comicita', e' che una percentuale del 23% del pubblico in generale aveva chiesto due anni fa in un sondaggio ESPN “di ritirare il nome Redskins dalla squadra perche' offende i pellerossa”. Quasi il triplo dell'8% degli intervistati, i diretti interessati, che hanno detto al Washington Post di sentirsi turbati dal nome. di Glauco Maggi

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