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Donald Trump, o la va o la spacca: la strategia pericolosissima per le presidenziali 2010: dove si gioca tutto

Glauco Maggi
Glauco Maggi

Giornalista a NYC per Libero, autore di Figli&Soldi (2008), Obama Dimezzato (2011), Guadagnare con la crisi (2013), Trump Uno di Noi (2016). Politica ed economia. Autori preferiti: Hayek, M.Friedman, T.Sowell

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I Democratici, e' vero, hanno i loro problemi nel selezionare il loro candidato per il 2020. Per capirci, quello che appare il preferito ora dai primi sondaggi e' Joe Biden, e il suo antagonista principale e' Bernie Sanders. Poi c'e' la quarantina di speranzosi e speranzose, dalle senatrici diventate ultrasinistre per vincere le primarie all'ex ministro della Casa di Obama che ha annunciato oggi di scendere in campo dal Texas, passando per i miliardari di New York o della California venuti dal business e per sindaci, deputati eccetera. Fino a un mancato senatore che, appena persa l'elezione nel suo stato un mese fa, si e' guadagnato l'investitura di successore ideale di Obama a fare il presidente di tutta l'America dai giornalisti liberal doc gia' in fibrillazione. Ma conta davvero chi sara' il vincitore della Convention DEM? Questo e' il problema di Trump. Enorme. E lui non sembra rendersene conto. Alle ultime urne di medio termine si sono presentati al voto 118 milioni di cittadini, contro gli 83 milioni che votarono nelle elezioni di medio termine del 2014. I Democratici hanno battuto i Repubblicani per nove punti percentuali, e strappato 40 deputati al GOP prendendo il controllo della Camera. L'afflusso eccezionale a questo appuntamento di medio termine, ben 35 milioni in più del precedente nel 2014 e soltanto 18 milioni di elettori in meno dei 136 milioni che votarono per la Casa Bianca nel novembre del 2016, e' sicuramente dovuto alla ostilita' diffusa e militante verso il presidente in carica. Anche considerando le vittorie locali che i suoi comizi hanno prodotto qua e la', facendo guadagnare due senatori al GOP, Trump sta scommettendo su una strategia di estrema conflittualita' dall'esito incertissimo, ad essere benevoli. Tralasciando che la migliore situazione economica negli USA degli ultimi decenni, su cui le sue politiche liberiste hanno sicuramente influito, non ha frenato la mobilitazione di massa lo scorso 6 novembre contro i candidati del partito repubblicano al grido “abbasso Trump”, le mosse del presidente sono la sua immagine personale, senza sfumature, o la va o la spacca. Forse e' convinto che, se ci fosse stato il suo nome sulla scheda, in Pennsylvania, Michigan, Wisconsin, gli Stati del MidWest che gli portarono due anni fa i “Grandi Elettori” che l'hanno fatto trionfare, il GOP non avrebbe perso, come ha invece perso, tanti seggi amministrativi e congressuali. L'unica spiegazione della sua strategia e' nella fiducia cieca di avere ancora dalla sua una porzione di America fedelissima sufficiente a ridargli i 270 voti elettorali per superare l'avversario che verra'. Cosi' si gioca tutto su due partite che ritiene mediaticamente e politicamente decisive. La prima e' l'immigrazione. E' arrivato a dire, in diretta TV litigando con i leader congressuali Democratici Nancy Pelosi e Chuck Schumer, che se non ci sara' il finanziamento di 5 miliardi per il Muro lui non mettera' la firma sotto la legge di finanziamento del bilancio federale di imminente scadenza. E ha aggiunto che sarebbe orgoglioso di “chiudere il governo” provocando la serrata dei servizi pubblici. Pensa, Trump, che la difesa dei confini contro gli irregolari sia il tema mobilitante a suo favore nei 50 Stati, quando la parola d'ordine del Muro non ha fatto vincere al GOP neppure il senatore che era in lizza in Arizona. Un'altra battaglia feroce e' quella che Trump conduce contro la stampa. E' risaputo che i giornalisti delle maggiori testate e dei network TV (Fox esclusa) sono, a grandissima maggioranza, avversari politici del GOP e fiancheggiatori dei Democratici. Ma questo andazzo c'era anche prima di Trump. Pure, sia Reagan, i due Bush e lo stesso Donald sono stati eletti. La realta' e' che gli americani – tutti o quasi - sanno che i media sono orientati a sinistra, ma sono anche convinti che la liberta' di stampa, malgrado sia viziata da una partigianeria (smaccata), e' un valore da preservare comunque. Sempre meglio della sua mancanza, come vedono che succede in Cina o in Russia. Ecco perche' l'impegno ossessivo di Trump contro il giornalista della CNN a cui e' stato tolto il visto e l'abolizione del tradizionale party natalizio che ogni anno viene organizzato per gli scambi di auguri tra l'amministrazione e il corpo giornalistico alla Casa Bianca sono due iniziative da “terra bruciata”. Ma dire “o con me o con i media” da' il risultato scontato di rafforzare il legame di Trump solo con i suoi purissimi fans, senza allargare la base di un voto che e' uno. Il fatto grave e' che i sondaggi insistono nel ricordare che la media delle rilevazioni da' l'approvazione per il lavoro del presidente al 43 % contro il 52% di americani che lo bocciano. Sono nove punti di distacco, e fino a prima del voto di medio termine di un mese fa Trump poteva cullarsi nell'illusione che i sondaggi avevano sbagliato nel 2016 e sbaglieranno pure nel 2020. Purtroppo per lui, pero', i nove punti di distacco tra DEM e GOP del 2018 sono veri voti, e collimano come presagio sinistro con i nove punti della media dei sondaggi. di Glauco Maggi

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