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A 11 mesi dal voto, ecco a cosa si aggrappano i democratici nella sfida a Trump

Glauco Maggi
Glauco Maggi

Giornalista a NYC per Libero, autore di Figli&Soldi (2008), Obama Dimezzato (2011), Guadagnare con la crisi (2013), Trump Uno di Noi (2016). Politica ed economia. Autori preferiti: Hayek, M.Friedman, T.Sowell

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Dove possono trovare motivi di ottimismo i Democratici a meno di 11 mesi dal voto? Non nella forza dei propri candidati o nel merito dei contenuti delle loro campagne, ma solo nel fatto che la consultazione sara' un referendum su Trump. Il quale nei sondaggi naviga ben sotto il 50% di americani che lo approvano per come si comporta alla Casa Bianca, ma che con la TrumpEconomics fa faville (posti di lavoro e stipendi all'insu') riconosciute anche da chi non lo ama. L'impeachment, che persino i DEM considerano solo uno strumento di propaganda negativa contro di lui, si concludera' con l'assoluzione in Senato, a meno di sorprese oggi impensabili nel processo in corso in Congresso. Eppure, e' questo sforzo di avvolgere nel discredito il presidente come personaggio politico, un compito affidato e svolto incessantemente dai media del mainstream, ad essere l'unico appiglio credibile per le speranze dei liberal e dei never Trump. In positivo, infatti, i candidati DEM non brillano di certo. Il campo degli sfidanti, a 50 giorni dalla prima consultazione in Iowa, si e' ridotto a quattro concorrenti con un rating di popolarita' a due cifre nei sondaggi, e a un paio di incognite. Nella media RCP, oggi 7 dicembre, Joe Biden e' al 27,8%, Bernie Sanders al 15,6%, Elizabeth Warren al 14,2%, Pete Buttigieg, il sindaco gay che e' il solo nome nuovo nel lotto dei favoriti, all'11,4%. A partire da questi dati Karl Rove, che orchestro' le due vincenti campagne di George W. Bush, prevede una Convention Democratica “frazionata” il prossimo luglio a Milwaukee (Wisconsin). L'esito di una Convention incerta nel momento della sua apertura sarebbe possibile per il combinato disposto dell'attuale regolamento delle primarie Democratiche, e della indecisione dell'elettorato nello scegliere un leader che meriti di staccarsi dal gruppo. Siccome il meccanismo della attribuzione dei Delegati alla Convention, Stato per Stato, prevede la piena proporzionalita' tra coloro che ottengono alle urne piu' del 15%, e' probabile, per Rove, che nessuno dei quattro arrivi con un bottino di Delegati superiore al 50%, quota richiesta per vincere alla prima votazione. Dalla seconda, entrerebbero in gioco i 765 “voti dei candidati automatici”, ossia i membri di partito indicati dal Comitato Nazionale Democratico. Si entrerebbe quindi in una fase di “mercato” tra le fazioni che ha l'ultimo precedente storico nel 1952. E' ovvio che un candidato che uscisse non da una investitura popolare acclarata nei mesi delle primarie, ma dalle trattative dietro le quinte in un convegno tra correnti, partirebbe con un forte handicap di entusiasmo e con un fardello di risentimento tra i militanti degli sconfitti sul filo di lana. Poi ci sono le due succitate incognite. La prima e' Mike Bloomberg. Nella media dei sondaggi e' gia' quinto, con il 4%, ma se riuscira' a farsi largo a suon di milioni nella visibilita' degli elettori prima del supermartedi' di inizio marzo contribuira' ad un maggior frazionamento tra i Delegati, aumentando la possibilita' della Convention “aperta”. La seconda incognita e' Hillary Clinton. In una intervista ad un seguitissimo conduttore radiofonico, qualche giorno fa, ha detto “che sa di aver poco tempo per decidere di entrare in gara”. Cio' conferma che ci sta ancora pensando, e questo puro fatto e' molto rivelatore: non tanto dell'intenzione di Hillary di scendere in lizza, perche' con tutta probabilita' non lo fara'; ma, innegabilmente, del fatto che l'establishment DEM e' assolutamente insoddisfatto della formazione schierata ora in campo, ne percepisce l'inadeguatezza, e non sa da che parte sbattersi. Si ritrova infatti con due socialisti radicali tassa e spendi (Sanders e Warren) che tallonano un vecchio vicepresidente, non stimato e non sostenuto dal suo ex capo Obama, e che perde i colpi sul piano personale giorno dopo giorno. La nube del figlio Hunter e dell'Ucraina grava pesantemente su Joe, e lo ha dimostrato durante un incontro con gli elettori del suo partito: quando un anziano DEM gli ha chiesto ragione dell'impiego ottenuto da Hunter alla Burisma, Biden senior lo ha preso a male parole (maledetto bugiardo, ciccione) e lo ha sfidato a fare i piegamenti a terra, e a vedere “chi ha il quoziente di intelligenza piu' alto”. Spettacolo imbarazzante. Ma, del resto, e' quello che passa il convento. I media speranzosi e simpatetici pro sinistra avevano tentato di montare due personaggi nuovi, ma costoro hanno fallito alla prova-finestra dell'esposizione ai dibattiti. Il primo e' Beto O'Rourke, l'ex deputato texano che aveva cambiato il suo nome da Robert a Beto per farsi passare da ispanico, imitando Obama che aveva trasformato il Barry della nascita a Barack, per enfatizzare la sua negritudine che almeno era mezza vera. Ricordate che giornali e tv avevano subito descritto Beto come un giovane John Fitzgerald Kennedy reincarnato? E che lui si era definito uno “che era nato per essere presidente”? Si e' sgonfiato subito. Poi e' passata la meteora di Kamala Harris: di razza mista nero-indiana, ex attorney general in California, senatrice, sotto i 50 anni, di bella presenza, era stata subito decantata da tanti giornalisti come la Obama di colore, inevitabile prima donna nera. Ha raccolto anche 25 milioni per la sua campagna, ma ha dovuto prendere atto che gli elettori (e parliamo di elettori liberal) non se la sono filata, delusi dai flip flop sulla salute e dalle idee strampalate, come quella di vietare i tweet a Trump. Insomma, le due promesse roboanti sono all'archivio come i due fiaschi piu' clamorosi, e ai Democratici sono cosi' rimasti gli usati insicuri Biden, Warren, Sanders; un inesperto e improbabile sindaco omosessuale; un miliardario che non piace affatto all'anima sinistra del partito che oggi detta la linea; e, chissa', una mancata prima donna che ha fallito nel 2008 e nel 2016. di Glauco Maggi

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