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Il Pulitzer politicamente scorretto che dice "frocio" e "negro"

Nel suo ultimo romanzo ambientato nella Manhattan degli anni Quaranta la protagonista è Anna, una palombaro bugiarda ma coraggiosa

PAOLO BIANCHI
PAOLO BIANCHI

Paolo Bianchi è nato a Biella nel 1964. Ha pubblicato "Avere trent'anni e vivere con la mamma" (Bietti, 1997), "Uomini addosso" (ES, 1999), "Il mio principe azzurro" (ES, 2001, con Igor Sibaldi), "La repubblica delle marchette" (Stampa alternativa 2004, con Sabrina Giannini), "La cura dei sogni" (Salani, 2006), "Per sempre vostro" (Salani, 2009), "Inchiostro antipatico. Manuale di dissuasione dalla scrittura creativa (Bietti, 2012). Ha scritto per riviste e quotidiani, fra questi ultimi "Il Foglio". "Il Giornale" e, dal marzo 2010, "Libero". Lavora anche come traduttore letterario.

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Jennifer Egan Foto: Jennifer Egan
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New York pensata come luogo di mare. Punto di vista insolito, tantopiù a Manhattan. Ma tra l'estuario del fiume Hudson e l'oceano Atlantico sorgono smisurate aree portuali. Manhattan Beach, la spiaggia di Manhattan, dunque esiste, non è solo il titolo dell'ultimo romanzo di Jennifer Egan (Mondadori, pp. 514, euro 22, traduzione di Giovanna Granato). Questa signora bionda e radiosa emana onde magnetiche di successo. Nel 2011 ha vinto il premio Pulitzer per la letteratura con il romanzo Il tempo è un bastardo. Vive a New York, a Manhattan per l'appunto, e si direbbe in centro, visto che quell'11 settembre ha sentito distintamente da dentro casa lo schianto di un aereo contro un grattacielo. Un bel giorno, mentre faceva jogging sul fronte del porto, ecco l'idea per questo suo poderoso lavoro: l'acqua. Prende forma il personaggio di Anna Kerrigan, impiegata nel 1942 nei cantieri navali di Brooklyn, là dove la penuria di maschi rendeva accessibili alle donne lavori inconsueti. Nel suo caso, il palombaro. Una protagonista che incarna il tipo della donna forte. Eppure la Egan colpisce perché in un'ora e mezza di conversazione non pronuncia mai parole come “femminismo” o “violenza maschile”. Come non volesse impelagarsi in concetti e discussioni ormai incancrenite. “La fiction cerca continuamente di fare questo. Partire da un'idea, in questo caso il mare L'acqua era dappertutto nelle immagini di New York durante la guerra. Tutto il commercio si svolgeva sull'acqua. Scrivere è trovare cose che sono gli lì, ma non le puoi vedere. Il mio sogno ricorrente: porte che si aprono e mi portano in altri spazi”. Che cosa le ha dato l'impressione che fosse interessante pensare a una donna palombaro? “Esplorare l'acqua. Nel suo doppio significato, letterale e metaforico, perché scrivere dell'acqua è come scrivere della scrittura stessa. La profondità è una metafora acquatica”. Anna cresce negli anni Trenta, con un padre coinvolto nella malavita, che scompare. Anna è una figura positiva per il lettore. Tuttavia, mente in continuazione. “Vero, eccellente intuizione. Ma non l'ho costruita in anticipo. Mente perché così le ha insegnato suo padre. Mente per essere libera e avere una vita indipendente, in un periodo in cui le regole normali erano sospese. È un'opportunista, ma non sociopatica. In un altro mio romanzo, Guardami, c'è una protagonista che mente, ma per proteggere la verità”. I suoi personaggi sono simboli di qualcosa? “Non direi. Sarebbero piatti. Nella prima stesura, che scrivo a mano, in questo caso 1.400 pagine, mi preoccupo del rapporto fra tempo e luogo. Poi vengono i personaggi. Tipo Dexter, il malvivente. Figura romantica, ma presente nel tessuto della società. Cerco di entrare nella mente del personaggio. Nella vita, viaggiando molto, ho subito decine di rapine. Ogni volta cercavo di entrare nella testa del ladro. E poi la psiche degli americani è permeata di violenza”. Nei suoi libri tratta spesso il tema della bellezza rovinata. “Ho l'ossessione di come la cultura dei media interagisce con le nostre vite. Propone la bellezza come se fosse una moneta corrente visiva. Una cultura perversa della bellezza, un ideale seducente. Guardi molte tredicenni, i modelli che imitano. Ma la bellezza è anch'essa menzogna”. Da una parte nel libro lei usa parole scorrette come “negro” e “frocio”. Dall'altra il suo linguaggio è elegante, persino fiorito, con i gangster e i portuali che non dicono parolacce. Perché? “Io nella vita le dico. Però la lingua del libro è venuta da cose che stavo leggendo, fra cui molta narrativa della prima metà del diciannovesimo secolo, e corrispondenza, e quella era la lingua del tempo. Quando le differenze erano chiare e definite. Mio marito, ebreo, è rimasto scioccato da espressioni come “shylock”. Sembra impossibile, ma in quell'epoca ci si esprimeva così. Ognuno era chiamato per quello che era. Il che paradossalmente neutralizzava le differenze. Del resto anche i gangster si mettevano la cravatta”. Anna gestisce benissimo i maschi. Ha un'opinione sui rapporti oggi? “Il lato positivo della guerra è stato dar loro un'opportunità. Poi negli anni Cinquanta sono state relegate a fare i biscotti. Una che aveva fatto la saldatrice, dopo non poteva più. Adesso non so più cosa dire, perché la situazione cambia ogni momento. Prima alle donne non era neanche permesso di salire a bordo di una nave, per non metterle in imbarazzo. Oggi vengono assalite in ufficio da personaggi televisivi. Ma per me il problema non si pone: lavoro da sola”.

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