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Passa la manovra, tra distrazione e malumori

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Ciascuno ha i suoi motivi per rumoreggiare, parlare d'altro, fare altro. Per i senatori di Pdl e Lega questa manovra è un boccone indigeribile. Dovevano essere quelli del meno tasse per tutti ed eccoci qui con tasse per tutti e di ogni tipo. Per quelli dell'opposizione questo voto di fiducia allontana, per l'ennesima volta, la speranza di governi tecnici o di responsabilità nazionale. Fatto sta che la seduta di Palazzo Madama con cui alle otto di sera, grazie a 165 sì, 141 no e 3 astenuti,  viene approvata una manovra correttiva da 54 miliardi, la più pesante degli ultimi decenni, nel tentativo di scongiurare la fine della Grecia, va in scena in un clima di generale svogliatezza e malumore. Mentre fuori dal Palazzo c'è la guerriglia urbana. Alle tre e mezza, quando comincia la discussione, in aula ci sono 13 persone. E quando alle sei l'emiciclo si riempie perché cominciano le dichiarazioni di voto e c'è la diretta tv, il presidente Renato Schifani è costretto per ben due volte a richiamare un po' di disciplina. All'inizio della seduta: «Senatori, un po' di compostezza. Quest'aula non è una sala di incontri per chiacchiericcio». E una mezz'ora dopo: «Mi trovo in grande imbarazzo, c'è pure la tv: senatori che gridano dietro il banco di presidenza, altri che saltano da un posto all'altro...». delusione nel pd Sarà che, come ammette Franco Marini alla buvette, manca la suspence: «È un copione già scritto: la fiducia ci sarà, la manovra passerà. Del resto, messi come siamo messi e dopo l'appello di Napolitano, non si poteva non approvare questa manovra». Nel Pdl è un lamento continuo: per i tagli alle indennità, per il contributo di solidarietà, per l'aumento dell'Iva. Ma niente si muove. La ragione la spiega Stefano Ceccanti, Pd: «Nel 2008, per paura che uscisse un Senato incerto, tutti i partiti hanno fatto liste blindate: la Lega è berlusconiana, il Pdl è compatto. Non so alla Camera, ma qui non succederà niente». Non ci si fa illusioni nemmeno su Beppe Pisanu che proprio oggi su Repubblica ha chiesto a Berlusconi di farsi da parte per consentire un governo di larghe intese. «Pisanu vale se stesso...», è il commento generale. Del resto lui stesso è il primo a raffreddare gli entusiasmi. Mollare la maggioranza? «Ma no. Io voterò la fiducia e convintamente. Ho solo detto che per il bene del Paese bisognerebbe unire tutte le forze...». Ma chi sia in grado di farlo, nessuno lo sa. Forse i mercati, forse le Borse, forse la Bce. Nicola Latorre, Pd, si dice convinto che «con questa manovra la maggioranza ha raggiunto il limite. Più di questo, non reggono. Se ne servirà un'altra, crollano». Forse. Ma intanto la maggioranza c'è, il decreto passa e le facce dei senatori, di maggioranza e di opposizione, sono sempre più annoiate. In tutto questo spicca la poltrona vuota al centro dei banchi del governo, quella riservata al presidente del Consiglio. Il governo è rappresentato da Giulio Tremonti, per tutto il tempo scortato, dentro e fuori dall'aula, da Roberto Calderoli. Ci sono Maria Stella Gelmini, molto più in là Renato Brunetta, Altero Matteoli. E c'è Gianni Letta, il tramite tra Palazzo Chigi e Quirinale, che prende posto sotto il posto del premier. Cominciano le dichiarazioni di voto. Rutelli grida contro la «fine delle vostre promesse: “Taglieremo le tasse, ridurremo le aliquote...”. Tutto finito!». Ma se la prende anche con «una certa opposizione che ha paura dell'impopolarità». Ed evoca, non sarà l'unico, la possibilità che presto occorra fare un'altra manovra. mal di pancia leghisti Felice Belisario, Idv,  paragona il decreto a uno «yogurt che si compra al mattino e scade alla sera». E poi un'altra metafora: «Grandina e voi avete aperto un ombrello di carta!». Tremonti ascolta, con un sorriso, a braccia conserte. Si innervosisce, invece, quando Gianpiero D'Alia, Udc, dopo aver detto che, vista l'urgenza della situazione, non contestano il ricorso della fiducia, accusa: «Un governo che mente sui conti pubblici è un governo di cui nessuno in Europa si può fidare!». Tremonti fa no con la testa. No e no. Per fortuna segue Federico Bricolo, Lega, che spiega come in una crisi che ha colpito tutta Europa «siamo riusciti a resistere grazie ai provvedimenti lungimiranti e prudenti di Tremonti». Applausi dei leghisti. Ammette, però, che questo decreto «non ci porterà consenso». E rende onore alla «determinazione di Bossi», grazie alla quale «siamo riusciti a non toccare le pensioni di anzianità» e a inserire il contributo di solidarietà «che pagheranno anche i calciatori miliardari». Ma una cosa la deve dire: «In Padania tutti sanno che questa crisi non ci sarebbe stata se il Sud si fosse comportato come il Nord». Al Pd non resta che far la parte della Cassandra: Luigi Zanda attacca «l'incapacità» del governo, cita un Nobel che ha definito il premier «buffone». Chiede a Schifani di dire in pubblico cosa ne pensa del ricorso alla fiducia. Snocciola previsioni catastrofiche: questa manovra non basterà, i mercati non ci crederanno, conoscono Berlusconi e si opporranno, «voi sopravviverete, ma uccidete l'Italia». Ora il decreto passa alla Camera. E già si profila uno scontro sui tempi. La maggioranza punta ad approvarlo entro la settimana. L'opposizione chiede qualche giorno in più. Ma c'è l'incognita Gianfranco Fini. Domenica chiude la festa di Fli a Mirabello. Nel Pdl il timore è che punti far slittare la manovra così da riservarsi un affondo domenica davanti alle telecamere.

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