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«Ho scritto t'amo sulla sabbia e il vento poi ci ha portati via con sé»

La coppia Franco IV e Franco I diventò famosa nel '68, ma dopo due anni scoppiò. «Franco I non riuscì a reggere la troppa popolarità. Io ora gestisco un bar a Milano»

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Chissà quante volte l'avrete sentita o fischiettata. E poco conta che abbiate 20 o 70 anni, perché “Ho scritto t'amo sulla sabbia” ha attraversato tutte le generazioni. Già, un successo strepitoso del 1968, entrato di prepotenza nella storia della musica e nei giradischi degli italiani. A cantarlo erano due ragazzi dai capelli lunghi e dai vestiti buffi, che si facevano chiamare Franco IV (Francesco Romano) e Franco I (Francesco Calabrese). In due anni hanno fatto concerti e venduto dischi, un vero boom. Che presto, però, si è trasformato in boomerang quando uno dei due (Franco IV) ha deciso di mollare tutto perché travolto dalla troppa popolarità. Ora, a distanza di 40 anni, Francesco Calabrese racconta la sua vita e quella - breve ma intensa - della coppia “Franco IV Franco I”. Francesco Calabrese, lei quale Franco era: I o IV? «Franco I. Ci chiamavamo così perché...». Non ci tolga la sorpresa, lo raccontiamo dopo. Intanto beviamoci un caffè. Scusi, che fa? «Lo preparo! Il bar è mio, l'ho preso quando ho lasciato Napoli e mi sono trasferito qui a Milano». Come mai ha scelto il nord? «Me ne sono andato con il dolore nel cuore, quella è stata la mia città per 50 anni. L'ho fatto per le mie figlie, Martina che ora ha 23 anni, e Valentina, che ne ha 30». Distacco traumatico? «Ho viaggiato di notte, in auto. Appena arrivato mi sono guardato in giro, c'era solo nebbia. E mi sono detto: “Che faccio acca' a Milano?”. A Napoli avevo il mio giro e il mio gruppo, ero conosciuto e stimato, cantavo, componevo e ogni tanto mi esibivo con un sosia di Franco IV. Ho mollato tutto». Gestisce da molto la “Caffetteria Silvia”? «Dieci anni. Qui ci sto bene. Guardi là dietro, ci sono i campi da golf». Sa giocare? «Mi piace, ci vado ogni tanto. Ora scrivo t'amo sull'erba...». Buona questa. Diceva che non fa più musica, però. «Non ho tempo materiale. Mi sveglio alle 5.30 e lavoro fino alle 20. Poi crollo e vado a dormire». Nel bar non c'è nemmeno una fotografia di Franco IV Franco I. «Preferisco vivere all'ombra, senza dire chi sono. Solo ogni tanto, se vado in tv, c'è chi mi riconosce». Cosa le chiede la gente? «Se io e Franco IV ci vediamo ancora». E che risponde? «Non più. Ci siamo lasciati male, per anni ci siamo persi». Poi approfondiamo.  Nel frattempo partiamo ancora da più lontano, da Francesco Calabrese bambino. «Nasco a Napoli il 10 marzo 1947. Cresco nel posto più bello della città, in pieno centro a ridosso di piazza Plebiscito. Sono il secondo di quattro figli, papà lavora all'Enel e mamma fa la casalinga». Bimbo timido? «Noooo, scatenato. Come si dice a Napoli, “nu figli' e' zoccola”. E ne combino una ogni giorno». Una marachella da ricordare? «Ho 6 anni e papà si accorge che la nostra cameriera, una vecchia, si beve di nascosto il vino. Allora preparo uno scheletro in cartone con gli arti mobili, che gestisco con un filo. Appena lei apre la bottiglia pum, glielo faccio spiaccicare contro il muro. E sviene per la paura!». Vivace, il bambino Francesco... Anche con le ragazze? «Prima fidanzatina a 11 anni, lei è la figlia di un poliziotto e fa le magistrali. Un giorno ci becca il padre e io mi sento fottuto di paura. Mi indica: “Tu chi sei?”. Provo a fare il furbo e rispondo d'istinto: “Un compagno di scuola di Emma”. Mi fulmina: “Sì, dell'istituto magistrale femminile?”». Quando, invece, il contatto con la musica? «Dopo le scuole medie mi iscrivo al conservatorio. Violino, inizialmente. Ma non mi piace, mi vergogno a girare con lo strumento, mi sembra di avere un osso di prosciutto... Così cambio: pianoforte». Dove fa le prime esibizioni? «Nei locali fetidi del porto, odore di gin e  whisky, fumo, soldati americani e zoccole. Suono con un gruppo  che si chiama “I notturni”. Io sto al piano e ogni notte finisco alle 5 di mattina. Quando torno a casa ho le dita spellate dallo sforzo». Quella che si dice: vera gavetta. «Una volta una entraineuse si appoggia all'impianto che serve per produrre l'eco, c'è una dispersione e prende la scossa. La tipa, incazzata, si gira e tira una sedia addosso al batterista». Che ambientino... «E mio padre, poverino, uomo casto di alti valori, credeva suonassi in posti raffinati. Finché un giorno dimentico a casa il microfono e gli chiedo di portarmelo. Arriva, entra e si trova di fronte a una zoccolona:  quasi gli viene un colpo... “Franco, non tornare più a casa!”». E l'incontro con l'altro Franco quando avviene? «Estate 1967, sono in vacanza a Ischia dove papà ha una villa decaduta. Una sera, sotto l'ombrellone, vedo un ragazzo che canta pezzi di Bob Dylan e suona una chitarra a dodici corde. Ha una bellissima voce e capisco che si adatta perfettamente alla mia. Ci conosciamo e iniziamo a suonare insieme». È Francesco Romano. «E qui arriva il bello. Nella compagnia siamo otto ragazzi e ci chiamiamo tutti Franco. Io sto con una francese, una certa Silvia, che per distinguerci ci mette in fila e ci numera: Franco I, Franco II, Franco III e così via. Io sono il primo, naturalmente. Lui è il quarto. Quando dovremo scegliere un nome d'arte ci ricorderemo di questo episodio e così diventeremo “Franco IV e Franco I”». Torniamo a Ischia. «In quei giorni viene allestito un palco in piazza e chi vuole si può esibire. Propongo a Franco di scrivere qualcosa e componiamo “Children”, pezzo in inglese maccheronico che qualche giorno dopo venderemo a Peppino di Capri per 100 mila lire. Quando suoniamo è un successo, applausi e ovazioni». E ci prendete gusto. «A fine agosto decidiamo di investire le 100 mila lire che ci ha dato Peppino di Capri. Obiettivo: andare a Milano in autostop per cercare un contratto». Urca. «Freghiamo un prosciutto a un amico salumiere e partiamo. Ci prendono solo carri bestiame e stiamo in giro una settimana: mentre viaggiamo suoniamo e componiamo. Arrivati in Liguria, a Borghetto di Vara, siamo sfiniti, sporchi, puzzolenti, affamati e senza più una lira. Piove, cerchiamo riparo in una chiesa sconsacrata. Accendo un cero e chiedo solo una cosa: tornare a Napoli che non ce la facciamo più. E...». ...e? «Usciamo ed ecco il miracolo! Incontriamo una signora francese, benestante. Raccontiamo la nostra storia, suoniamo e in cambio lei ci paga cena e albergo. La mattina dopo ci propone di seguirla in Francia, perché ci può presentare un amico discografico. Arrivati al bivio Genova-Milano, però, Franco IV dice che non se la sente di andare all'estero, sta facendo l'università e deve tornare a studiare. Salutiamo e, sempre in autostop, troviamo un passaggio su un camion, destinazione Milano». Per cercare fortuna. «Macché. Per prendere un treno e tornare a casa! Nell'attesa di ripartire, però, sfogliamo l'elenco del telefono e chiamiamo una grossa casa discografica. Ci presentiamo, niente. Proviamo con una seconda, più piccola e con un nome strano: Style. Oltre a curare dischi fa anche stampe e fiches per il casinò. Incontriamo il padrone, è Gino Mescoli, quello di “Amore scusami” di John Foster. Dice che non ha tempo di ascoltarci, deve andare a pranzo. Lo convinciamo e ci sediamo tutti per terra: dopo un paio di pezzi è entusiasta.  E ci fa firmare un contratto di tre anni più due per 100 milioni». È la svolta. «Torniamo a Napoli felici, non ci sembra vero. Ci invitano in tv a “Settevoci”, programma condotto da Pippo Baudo: è una sfida tra nuovi cantanti. Arriviamo terzi. La casa discografica, allora, propone di partecipare a “Un disco per l'estate”, ma c'è da comporre qualcosa di nuovo e speciale». E nasce “Ho scritto t'amo sulla sabbia”. Dove le viene l'idea? «Da una cartolina». Cioè? «Ricorda Silvia, la ragazza francese che ci diede i nomi a Ischia? Ecco, un giorno nella cassetta della posta trovo una sua cartolina: “Ho scritto t'amo sulla sabbia e il mare lo cancellò. Poi l'ho scritto nel mio cuore e sempre lì restò”. Taac, mi viene lo spunto e poi ci lavoro su con calma». E la musica? «È il periodo in cui va di moda fare una pausa a inizio brano. Utilizzo questo schema e il brano da lento diventa svelto. E funziona». Sul disco, però, parole e musiche vengono firmate “Sharade-Sonago”. Chi sono? «Non eravamo iscritti alla Siae e abbiamo utilizzato due pseudonimi. Sharade ero io, mentre Sonago era il cognome della moglie di Mescoli». Torniamo a “Un disco per l'estate”, edizione del 1968. Conducono Pippo Baudo e Gabriella Farinon. «Io sto facendo il servizio militare, dunque ho i capelli cortissimi e quelli della Rai mi mandano a Roma, a Cinecittà, per farmi fare una parrucca su misura. Poi partecipiamo a un corso di ballo con Don Lurio per imparare qualche movimento e infine ci danno degli abiti strani, stile Beatles. Ho rivisto il filmato di recente: sembravamo du' stronzi... Ahahah». Vince Riccardo Del Turco con “Luglio” e voi vi classificate terzi. «Ma siamo i veri trionfatori morali». E diventate famosissimi. «Lo capiamo la sera dopo la finale, a Torino. Ci invitano al locale “Le Roi”, ma siamo senza band. E allora ci arrangiamo alla napoletana: facciamo venire da Pozzuoli quattro amici, gli mettiamo in testa una parrucca riccia e gli diamo degli strumenti musicali». Bravi artisti? «Incapaci! Uno aggiustava scaldabagni, un altro era elettricista. Però il trucco funziona, loro fanno scena ed  è un trionfo. La gente impazzisce per noi». In quel momento siete al massimo del successo. «Il disco è al primo posto tra i 45 giri più venduti e resta in classifica per 16 settimane, ci chiamano per concerti ovunque. E si inizia a viaggiare: andremo pure negli Usa».  Come mai sorride? «A New York sono sul palco e vedo una ragazza splendida, la raggiungo e la prendo per mano per paura che mi scappi. Finito il concerto andiamo in albergo, diciassettesimo piano a Manhattan, moquette verde, terrazzo. E suono il piano per lei». Vi fidanzate? «Ci mettiamo insieme, ma devo tornare a Napoli. Dopo 20 giorni mi manca e sa che faccio?». Dica. «Prendo il primo aereo per l'America e la sposo». Ma dai... «Praticamente senza nemmeno conoscerla. I suoi, gente ricca, organizzano una mega cerimonia e mi danno vestiti eleganti, addirittura scarpe “Valentino” con suola in cuoio. Sono tutto solo, senza nemmeno un parente o un amico. Per darmi un tono, allora, vado al tavolo a farmi un goccio di champagne». E che succede? «Afferrato il bicchiere, scivolo sulle scarpe di cuoio e mi verso tutte le bollicine nel naso. Quasi soffoco davanti a tutti. Che figura e'mmerda. Mi volto pensando che siano tutti preoccupati per lo sposo che sta morendo. Ma ci resto malissimo: nessuno si era accorto di me!». Curiosità inevitabile: per quanto tempo è stato sposato? «Due anni e mezzo, vivevamo a Napoli. Lei, ricca ereditiera, si era comprata due cani Yorkshire. Bellini, ma du' cacacazzi... Appena avevano un po' di tosse partiva per New York e li portava dal veterinario di fiducia. Dopo un po' le ho detto: «Amore, tu vai avanti che poi ti raggiungo. Vai, vai...». E mi sono separato. Trent'anni fa, per fortuna, ho conosciuto Silvia. E mi sono risposato con la donna della mia vita». Torniamo al vostro successo. Altre tournée strane? «A Teheran. Già in aeroporto ci accorgiamo che c'è qualcosa di strano. Loro tutti con la barba lunga e i capelli cortissimi, noi barba corta e capelli lunghissimi. Ci guardano male, ci considerano dei trans. E ci fanno il segno di tagliarci la gola». Poi? «Concerto nell'auditorium del mega hotel, scaldiamo l'ambiente con il fumo finto e come sigla per lo spettacolo spariamo Jimi Hendrix. Loro, abituati al valzer, non capiscono più nulla. E succede il caos». Cioè? «Franco IV, che suona con gli occhiali senza lenti per non avere riflessi, viene sfiorato da un portacenere in cristallo. Il pubblico cerca di salire sul palco, ci vogliono ammazzare e scappiamo. Risultato: ci portano via tutto - strumenti e passaporto - così non possiamo più tornare in Italia». Addirittura? «Sì e il giorno dopo scopriamo che c'è un gruppo di ballerini francesi che non riesce a tornare da cinque anni!». E come fate? «La risolviamo alla napoletana. Cioè decidiamo di girare per il lussuosissimo albergo in mutande, con il sedere di fuori, finché non ci restituiscono il passaporto. Risultato: nel giro di poche ore arriva l'ambasciatore italiano e sistema tutto». Famosi e ammirati. Invidiati. Dal '68 al '70 siete al top. Poi che succede? «Franco IV mi telefona. “Non ce la faccio più. Smetto perché voglio andare avanti negli studi”. Così, senza preavviso, tradendo gli accordi. E facendoci perdere un sacco di soldi per i contratti già firmati, roba da 200 milioni». Motivo? «Non era abituato al successo. La popolarità l'aveva sconvolto, non era più lui. Quando si andava al cinema entrava in sala e a luci spente diceva al pubblico: “Eccoci, siamo qui”. Una volta, dopo aver visto il musical “Hair”, andò in giro vestito con una tunica e predicando». Così, da un giorno all'altro, lei si trova solo. «Riesco a ottenere  un contratto con una nuova etichetta e, come Francesco Calabrese, a fine anni Settanta lancio “Tu mi manchi”. Ma è tutto diverso». Rimpianti? «In quegli anni non esistevano i manager, c'era poca organizzazione. Fossimo stati gestiti meglio, forse saremmo durati più a lungo». Più sentito Franco IV? «Per molti anni no. Mi ha cercato recentemente. Credo sia felice, lavora in ospedale con i macchinari di radiologia». Calabrese, ultime domande veloci. 1) Cantante preferito? «James Taylor». 2) Una canzone che le sarebbe piaciuto scrivere? «“I migliori anni della nostra vita” di Renato Zero». 3) È scaramantico? «No, ma ci credo. Ahahah». 4 )Rapporto con la religione? «Prego da solo». 5) Paura della morte? «Sì e ora, rispetto a un tempo, sto più attento ai dolorini strani». 6) Rapporto con il sesso? «Allucinante...». 7) Ricorda la prima volta? «A 11 anni con una cameriera». 8) Ha avuto molte donne? «Moltissime. Poi ho avuto la fortuna di conoscere mia moglie che ha un carattere eccezionale». 9) C'è qualcuno che vorrebbe riabbracciare? «Mamma e papà». Ultimissima. Entrasse ora, qui al bar, Franco IV che gli direbbe? «Gli offrirei un caffé. Ma eviterei di parlare del passato».

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