L'editoriale

La politica si ammazza da sola

Lucia Esposito

Umberto, Riccardo e Renzo.  Secondo la Procura di Milano i tre Bossi avevano lo stesso vizio: allungavano le mani sui soldi della Lega. Il capostipite per le piccole spese di casa, i figli per le faccende quotidiane.  In base alle accuse e ai riscontri emersi dalle carte, più che una famiglia sembra la Banda Bossotti:  una allegra combriccola di rubagalline che avevano scambiato il partito per  un’azienda personale e quando ne avevano bisogno tiravano il cassetto prelevando il necessario.  Che questo fosse il convincimento, lo dimostra il fatto che uno degli eredi, il più grande dei due indagati, meditava di mettersi in proprio:  avrebbe voluto staccarsi dal genitore per avviare un partito tutto suo, probabilmente per poter attingere meglio, senza render conto al capostipite.  Risultato: invece di fondarne uno nuovo, ha contribuito ad affondare il vecchio, anzi il più vecchio tra quelli presenti in Parlamento. Fino a ieri, pur essendo nata negli anni Ottanta e aver sfondato nei  Novanta, la Lega godeva  dell’immagine di  partito nuovo, con un forte radicamento sul territorio e una classe dirigente di volti freschi. Mentre gli altri erano costretti a mostrarsi con le solite vecchie cariatidi - professionisti della politica  tipo Veltroni, D’Alema, Livia Turco, Casini e Fini, tutti da trent’anni in Parlamento -, il Carroccio poteva schierare deputati  di primo pelo, determinati  e pronti a parlare chiaro. Poi, nell’arco di poco più di qualche mese, tutto è cambiato e il movimento che sguainò lo spadone di Alberto da Giussano si è rivelato a un tratto vecchissimo. Più che un partito appare un clan: un’impresa famigliare gestita come una salumeria di paese, dove chiunque ne avesse bisogno poteva servirsi da solo senza stare a fare troppi complimenti.  Così, dopo anni di gestione allegra, dal rendiconto finale mancano qualcosa come diciotto milioni. Una bancarotta però più politica che economica. Ora Maroni dice che vanno cacciati i ciarlatani e i ladri, ma il dramma è che cacciare Bossi e la sua ingombrante famiglia è come cacciare la Lega stessa. Per quasi trent’anni  Umberto e il Carroccio sono stati una sola cosa. Dire Bossi significava dire Lumbard e viceversa. Come si fa dunque a mandare via il fondatore-ideologo e capo supremo senza mandare a ramengo anche tutto il resto? Sì, l’ex ministro dell’Interno sta provando a usare la ramazza per fare le pulizie di primavera, ma lauree, paghette e altri imbrogli quotidiani non c’è scopa che riesca a spazzarli via dalla memoria degli elettori e c’è il rischio concreto che prima o poi finisca tutto in pattumiera, Lega compresa. Intendiamoci: il Carroccio non è solo, ma sulla via del suicidio viaggia in buona compagnia. Le accuse che l’ex cassiere della Margherita ha rivolto mercoledì sera, durante la seduta della commissione sulle autorizzazioni a procedere, oltre al partito che diede vita al Pd rischiano di affondare tante altre carriere politiche. Quella di Francesco Rutelli prima fra tutte. Non che l’ex radicale, ex verde, ex margheritino ed ex piddino se la passasse bene: alle ultime elezioni il suo partito sembrava pronto per una puntata di «Chi l’ha visto?».  Tuttavia, ora che Luigi Lusi l’ha tirato in ballo con una frase sibillina sulla contabilizzazione delle spese, il futuro dell’ex sindaco di Roma sembra ancor più nero. Prospettiva che farà rallegrare chi considera Cicciobello un reperto del pleistocene parlamentare.  Anche altri esemplari di mammut giurassici rischiano però di fare la stessa fine, tipo Enzo Bianco, ex ministro e sindaco di Catania, al quale il cassiere avrebbe dato una paghetta mensile, oltre a 150 mila euro per il marito della segretaria. Vita dura pure per un bradipo terrestre come il sindaco di Firenze il quale, volendo rottamare i vertici del Pd, potrebbe essere rottamato a sua volta dalle rivelazioni del tesoriere, che lo accusa di aver preso 70 mila euro. Può essere che l’uomo dei soldi voglia gettare fango su tutti come sostengono Rutelli, Bianco e Renzi, i quali annunciano querela, ma chi ne esce a pezzi è tutta quell’area di cattolici di sinistra tanto cara al Partito democratico. Come se non bastasse, ce n’è anche per l’Italia dei valori, il partito personale di Antonio Di Pietro. La procura di Bologna ha aperto un’indagine e vuol veder chiaro nel bilancio della succursale emiliana del movimento. Non è noto che cosa abbia attirato l’interesse dei pm, probabile che la questione sia legata alla gestione dei fondi. Già in passato Tonino era stato costretto a cambiare le regole a causa delle critiche di alcuni dirigenti del partito, i quali lamentavano poca trasparenza e una gestione familiare dei soldi ricevuti dallo Stato.  di Maurizio Belpietro Quale sarà il risultato di questa indagine non è dato sapere, un fatto però è certo: tutti i partiti - in particolare quelli che strenuamente si oppongono alla modifica del sistema di finanziamento pubblico -  appaiono avviati a prematura estinzione. Alle elezioni comunali, alcuni - per esempio l’Idv - hanno perso più della metà dei voti e se non si affrettano a cambiare, molto probabilmente vedranno sparire la metà che resta. È questo ciò che vogliono? Se è così, è sufficiente che proseguano come hanno sempre fatto. Se non cancelleranno in fretta i contributi elettorali e continueranno a tenersi i soliti noti, molti chiuderanno baracca con la prossima legislatura. Non lo diciamo per fare i grilli parlanti. Di quelli ce n’è già uno: basta e avanza, nel senso che ogni giorno che passa, grazie ai partiti, conquista voti.