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Il presidente si svegliasolo perché tocca a lui

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Sinistra e stampa gridano allo scandalo, ma per anni le telefonate dell'ex premier Berlusconi sono state registrate e diffuse.

Nicoletta Orlandi Posti
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di Maurizio Belpietro Che cosa sarebbe accaduto se nel 2007 Silvio Berlusconi, allora parlamentare semplice ma pur sempre ex presidente del Consiglio in procinto di ridiventarlo,  avesse sollevato un conflitto di attribuzioni tra il suo ruolo di deputato italiano e la Procura di Napoli che lo aveva indirettamente intercettato nell'inchiesta sulla Rai? Risposta facile: la Corte costituzionale lo avrebbe rimpallato senza alcuna esitazione, sostenendo che la conversazione di un onorevole può essere involontariamente intercettata ma non usata contro di lui. Ascoltare un rappresentante del popolo protetto dalle prerogative dovute al suo ruolo è vietato, ma se lo si sente per caso, mentre si è messo sotto controllo il telefono di altri, non si vìola la Costituzione. Dunque quelle frasi possono essere usate nel processo a carico di terzi e anche contro il parlamentare, a patto però che si chieda l'autorizzazione alla Camera di appartenenza. Una falla giuridica che ha consentito per anni alle Procure di mezza Italia di mettere sotto controllo i telefoni di persone molto vicine a Berlusconi, rispettando formalmente la legge.  L'ex presidente del Consiglio e leader del Pdl infatti non fu intercettato volontariamente mentre parlava con l'allora direttore della Rai Agostino Saccà, ma l'audio della sua telefonata finì sul sito dell'Espresso, dove chiunque lo avesse desiderato avrebbe potuto ascoltare la viva voce del Cavaliere mentre parlava di attrici e attricette. Stessa cosa accadde un anno dopo, con le registrazioni fai da te di Patrizia D'Addario, depositate in procura a Bari. E poi fu la volta di Berlusconi con un commissario dell'Agcom e il direttore del Tg1, ascolto disposto dalla Procura di Trani. Quindi le intercettazioni  di Arcore, con contorno di dive e aspiranti tali, questa volta su ordine dei pm di Milano. Infine di nuovo i pubblici ministeri di Napoli, tramite l'inchiesta su Valter Lavitola, presunto giornalista in contatto con il presidente del Consiglio. Indagini dopo indagini, sbobinatura dopo sbobinatura, sputtanamento dopo sputtanamento: tutto grazie al trucchetto  delle intercettazioni involontarie.  Perché un pm quando si attaccava al telefono per ascoltare un presunto criminale poteva non sapere e una volta saputo che cosa poteva fare? Rinunciare a inseguire il colpevole? Buttar giù il telefono e non ascoltare più il presidente del Consiglio mentre parlava con un pericolosissimo Augusto Minzolini? Ovvio che no. La legge davanti a tutto. Anche quando Berlusconi parlava con Putin, come accadde una volta mentre alcuni signori intercettavano un telefono intestato alla presidenza del Consiglio. Pure in quel caso la giustificazione fu: ma come facevamo a sapere che l'utenza fosse in uso al premier? Per noi a chiamare poteva anche essere un usciere di Palazzo Chigi. Certo. Anche intercettando le celle telefoniche in un raggio di cento metri  attorno a Villa San Martino, ad Arcore, non era matematico incappare in una telefonata di Berlusconi, ma era altamente probabile. Eppure nessuno si è mai posto il problema istituzionale. Né quando il Cavaliere era «solo» capo del centrodestra e deputato della Repubblica né quando poi era ritornato a rappresentare il Paese come presidente del Consiglio. Nessuno allora pareva preoccupato del fatto che il capo del governo fosse posto indirettamente sotto intercettazione. Certo non gli editorialisti di Repubblica, che ora paiono afflitti come pochi per questa faccenda delle intercettazioni del Quirinale. All'epoca Eugenio Scalfari non sembrava preoccupato che «gli intercettatori non avessero interrotto immediatamente il contatto» appena udita la voce del presidente del  Consiglio,  come oggi lo è per «il gravissimo illecito» commesso da chi ha registrato le conversazioni di Giorgio Napolitano. Ora il direttore-fondatore salmodia dalle pagine di Repubblica, bacchettando i giornali che non denunciano la gravità di questo comportamento (quello di aver intercettato il capo dello Stato e conservato le registrazioni, ndr), allora invece di additare al pubblico «la grave infrazione» della Procura, era in prima fila a fare domande a Berlusconi, accusando chi intendeva limitare l'abuso giudiziario delle conversazioni telefoniche di voler mettere il bavaglio all'informazione e le manette ai pm.  Ora i costituzionalisti, da Valerio Onida a Michele Ainis, lamentano l'incursione di campo dei pm, a difesa delle prerogative del presidente della Repubblica e di due ministri come Nicola Mancino e Giovanni Conso, entrambi finiti sotto il torchio di Antonio Ingroia per la trattativa tra Stato e mafia e di conseguenza indagati. Ma Berlusconi non era anch'egli un ministro, anzi il primo ministro? E per lui le guarentigie non c'erano oppure in quel caso la Costituzione si poteva trascurare?  Perfino l'inquilino del Colle, un ottuagenario che non rischia niente se non di incrinare la patina immacolata che si è dato, pare allarmato. Al punto di aver affidato all'Avvocatura generale dello Stato l'incarico di rappresentarlo nel giudizio per conflitto di attribuzione nei confronti della Procura di Palermo. Una nota del Quirinale informa che il presidente si è deciso a tale passo per  impedire che «si pongano, nel suo silenzio o nella inammissibile sua ignoranza dell'occorso, precedenti, grazie ai quali accada o sembri accadere che egli non trasmetta al suo successore immuni da qualsiasi incrinatura le facoltà che la Costituzione gli attribuisce». Tralasciando la frase accidentata, abbiamo un solo commento: ben svegliato Presidente. Ha impiegato quasi sette anni, ma alla fine si è accorto che si comincia con un potere dello Stato e si finisce con lui. 

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