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Vittorio Feltri, la lettera a Bergamo: "Ho perso il conto dei morti. Io, colpevole di essere scampato allo sterminio"

 Vittorio Feltri

Vittorio Feltri
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La mia amata Bergamo è in ginocchio, così prega meglio, con maggiore concentrazione. In questi giorni di pestilenza assassina che ha provocato migliaia di vittime, un primato assoluto, essa non può fare altro che rivolgersi al Padreterno nella speranza di aiuto, visto che la scienza non sa che fare per contenere la strage. Da queste parti è più facile andare all’altro mondo che al supermercato e la gente ignora come comportarsi, salvo ubbidire alle disposizioni ermetiche di Giuseppe Conte, dal che si evince quanto sia disperata. Sui colli e nelle valli dove ho trascorso infanzia e giovinezza i preti hanno rinunciato a suonare le campane a morto per non terrorizzare la popolazione, già frastornata dai lutti. Non si capisce perché la provincia sia al vertice della classifica dei defunti a causa del virus. Non c’è virologo che abbia scoperto i motivi per cui proprio lassù, in mezzo al verde e tra persone educate, sia avvenuta simile ecatombe. Quasi 5000 trapassati senza contare quelli non censiti. È un mistero più cupo del maledetto Corona.

 

 

Confesso che anche i miei parenti sono stati falcidiati, ogni dì mi giunge una telefonata che mi informa di un decesso. Pure alcuni miei amici e compagni di scuola sono finiti al cimitero, ne ho perso il conto mentre avrei preferito perdere il Conte. Mi sento un abusivo della sopravvivenza. Quando tornerò a Bergamo per lanciare una occhiata alla casa che conservo in quella terra, avvertirò quasi di essere un estraneo, non troverò qualcuno con cui fare due chiacchiere sulla nostra prodigiosa Atalanta. Io sono ancora qui a picchiettare sul computer, colpevole di essere scampato allo sterminio. Peggio, di essere fuggito dal paesello in ottobre, poco prima che la malattia esplodesse, come se presagissi il peggio, e da allora non ci ho più messo piede. Anche questo particolare mi trafigge il cuore: sono scappato a tempo per evitare il contagio.

Mio fratello Ariel sostiene che io abbia soltanto avuto culo o sia stato ispirato da Sangiovese, protettore di chi beve volentieri un bicchiere o quattro. Forse ha ragione lui, però la sera, quando rientro nella mia dimora milanese e in tv seguo le statistiche relative alle vittime del Covid-19, provo una fitta al petto e mi viene il magone, a me che non piango mai per non tradire la mia fragilità.

Oggi non mi trattengo, ammetto di essere debole e impaurito, più che la morte temo la disperazione nel constatare che fra i miei concittadini non riconoscerò più coloro con i quali ho condiviso gli anni più belli, quelli con cui passeggiavo spesso lungo il Sentierone, luogo deputato allo struscio, o sulle incantevoli mura veneziane, teatro del mio primo bacio, dato a una ragazza, commessa di un negozio di elettrodomestici, che non ho più incontrato pur ricordandomi con nostalgia la sua tenerezza. Spero non sia stata travolta dal morbo.

Sospetto che queste righe turbate possano infastidire il lettore, tuttavia spero che almeno i miei bergamaschi comprendano: costituiscono lo sfogo di uno di loro incapace di trattenere il proprio dolore. Il mio pensiero corre specialmente ai vecchi come me, ammazzati dalla febbre e dalla polmonite. Individui in gamba che accudivano i nipoti e aiutavano i figli a tirare avanti la baracca, cattolici un po’ troppo bigotti ma generosi. Mi mancheranno il tintinnio dei bicchieri e le chiacchiere di ogni venerdì sera, allorché rientravo da Milano, e sostavo alla trattoria Falconi, scherzosamente definita “università della saggezza”, al fine di gustare un calice di bianco. Gli avventori sulle prime mi riservavano un certo riguardo, in seguito, dopo che avevo pronunciato un paio di battute burine, diventavano consanguinei, mi chiamavano Vittorio e volevano sempre offrire loro le consumazioni.

Non tradirò mai la mia esistenza paesana, rustica e ruspante. Mi riconosco in ogni orobico, e in questo detto riassuntivo: «Set bergamasca, fiama de rar, ma sota la sender brasca». Traduco: «Gente bergamasca, raramente si infiamma, ma sotto la cenere cova la brace». Ciao, Berghem. Sarai nel mio cuore e ti sarò grato fino all’ultimo giorno che mi rimane. Mi hai dato tutto, soprattutto i vizi e i difetti, e altresì per questo ti voglio bene.

Requiem.

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