Cerca
Logo
Cerca
+

Vittorio Feltri, il ritratto indiscreto di Eugenio Scalfari: "Il fuoriclasse re dei giornalisti diversi da noi"

Vittorio Feltri
  • a
  • a
  • a

Alcuni giorni orsono Eugenio Scalfari ha compiuto la bellezza di 96 anni. Su Dagospia ho visto una sua fotografia che lo ritrae canuto e fiero, la sigaretta in bocca che sembra una sfida contro la vecchiaia e coloro che la disprezzano, pensando male di tutti i vegliardi, per quanto vispi e intelligenti siano. Del fondatore di Repubblica non si è parlato male mai abbastanza per motivi squallidamente politici. Tuttavia non ho mai incontrato alcuno che non ne abbia riconosciuto un grande valore professionale. Perfino io, che con lui ho avuto vari battibecchi non l' ho mai considerato meno di un fuoriclasse. Concetto che nella presente circostanza desidero ribadire.

 

 

 

Non mi interessano i suoi molteplici ribaltoni ideologici, tutta roba fisiologica; chi non ne ha fatti scagli la prima pietra. Eugenio nella sua lunga vita ha attraversato mille burrasche senza mai arrendersi. Almeno questo occorre dirlo e ribadirlo. Non intendo ripercorrere le tappe interessanti della sua esistenza, bensì celebrare un possente giornalista, più fazioso e molto più bravo di me, capace di imporsi con la forza di argomenti capziosi ma assai convincenti. Lo sanno tutti: è stato fascista come numerosi uomini della sua generazione. Chi se ne frega! Pure mio padre era una camicia nera, e non per questo mi do delle arie. Poi Scalfari ha navigato in molti mari procellosi senza bagnarsi le scarpe, poiché è astuto e scaltro più di ogni suo collega, firme illustri comprese, magari più abili con il calamo, per esempio Indro Montanelli, eppure meno provetti nello stare al mondo, un' arte, questa, in cui eccellono soltanto le menti superiori. La sua biografia si beve come champagne: studente modello, già incline a essere un leader, impiegato di banca e, infine, giornalista di vaglia in grado di salire sui gradini più alti di questo mestiere sconcio e difficile. Il nome di Scalfari è legato alle più prestigiose testate nazionali, dal Mondo all' Espresso, le quali hanno segnato il cammino civile del nostro sgangherato Paese. Ovunque la sua penna si sia mossa ha lasciato una traccia indelebile. A un certo punto egli ha realizzato un capolavoro: la fondazione di Repubblica, che sembrava destinata a morire bambina. Era il 1976, quando il regno della carta stampata era dominato dal Corriere della Sera.

Inizi tribolati - Gli inizi del cosiddetto quotidiano maneggevole (per via del formato) furono senza dubbio tribolati. Lanciare un nuovo organo di informazione è impresa proibitiva. Ma il caso volle che dopo un paio d' anni le Brigate Rosse, assassini che piacevano ai comunisti per comunanza di idee, si accanissero su Aldo Moro, rapito e ucciso a sangue freddo.

Scalfari intuì che era il momento giusto per sferrare un attacco rimpinguando le tirature, e riuscì a vincere la battaglia cavalcando il fatto più clamoroso di quel periodo. Guadagnò copie su copie e si impose sul mercato, spaventando i signori di via Solferino alle prese con problemi enormi, poi aggravati dalla questione P2. Fu la svolta. Repubblica nel giro di un biennio, sotto la guida del neo barbuto direttore, divenne di moda. Semplificando, allorché al Corriere assunse il timone Piero Ostellino, fra i due giornali le distanze si assottigliarono. Finché avvenne il sorpasso grazie al Portfolio, un giochino borsistico che entusiasmò i lettori. Un evento sensazionale in seguito al quale Scalfari sedette sul trono dell' informazione. Un successo su cui nessuno avrebbe scommesso un soldo e che invece durò a lungo. Tutto questo non si può obliare né sottovalutare. Mai nessuno prima di Barbapapá era giunto ad insidiare il primato corrieresco.

Sorvoliamo sulle beghe che caratterizzarono la vendita a Berlusconi della Mondadori (azionista di Repubblica), semmai ricordiamo che don Eugenio a quel tempo cedette le quote personali dell' impresa che aveva avviato, incassando miliardi a gogo. Un affare colossale il cui merito fu tutto di Scalfari. Come si fa a non ammirare un personaggio del genere, che alla sua produzione aggiunse altresì alcuni libri pregevoli? Uno di questi è stato Incontro con io, che rammento di aver recensito sul Giornale in termini entusiastici. Sui difetti e le sbandate del nostro Gigante sorvolerei, fanno parte delle contraddizioni umane da cui nessuno si salva. Menziono solo un episodio buffo. Io vergai per un paio di anni sul Venerdì, allegato di Repubblica, e mi lagnai a un certo punto con il direttore perché non mi pagavano. Gli telefonai e lui ribatté che non era vero, avendo firmato i bonifici destinati sul mio conto. Aveva ragione lui, io non me ne ero accorto. Mi scusai. Una volta Eugenio, intervistato da Lucia Annunziata, interrogato su di me, confidò che ero come un suo figlio degenere.

Tutto sommato, un complimento. Abbastanza di recente mi sfidò a duello, immagino scherzosamente. Gli raccomandai di essere accorto nella scelta dell' arma, in quanto io da giovane ero stato un decente schermidore e lo avrei con scioltezza infilzato. Finì con una risata. Dimenticavo. Una sera incrociai il sommo direttore in un ristorante milanese, il Baretto. Quando mi alzai per andarmene, mi fermai a salutarlo al suo tavolo. Egli mormorò solenne: «Attento ché ti seguo». Ed io prontamente: «Ti seguo anche io. Da sempre».
Riguardati, Eugenio, resta con noi.

Dai blog