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Vittorio Feltri, il consiglio a Carlo De Benedetti: "Non replicare Repubblica, attendine il funerale"

Vittorio Feltri
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Il dado è tratto: Diocarlo De Benedetti varerà un nuovo giornale per contrastare quella che fu la sua Repubblica. Si chiamerà Domani e andrà in edicola con otto pagine, una miseria, ma si affaccerà anche sul web che, tutti dicono, sarà il futuro dell'informazione. Comprendo le motivazioni psicologiche che inducono l'ingegnere a tentare l'avventura. Egli anni orsono regalò le quote del quotidiano fondato da Eugenio Scalfari ai figli che non pare ne abbiano fatto buon uso, contribuendo a snaturare il primo foglio maneggevole uscito in Italia, il quale raccolse un successo smisurato, superando addirittura il Corriere della Sera.

Oggi in effetti la Repubblica vivacchia, ha perso forza politica e non è più di moda quanto un tempo lontano. Colpa dei novelli editori improvvisatisi tali? Può darsi. Così almeno la pensa il capofamiglia citato. Il quale pertanto, non essendo tipo da rassegnarsi alla crisi di quello che fu un suo prezioso prodotto, ora azzarda: si ributta nella carta stampata convinto di poter dimostrare ai propri eredi che non capiscono un tubo. Personalmente, stimandolo e provando nei suoi confronti sincera simpatia, gli auguro di raggiungere lo scopo che si è prefissato. Carlo investe nella iniziativa dieci milioni di euro, che non sono pochi ma che pure temo non bastino. Lanciare su un mercato zoppicante e asfittico un progetto ambizioso richiede uno sforzo economico enorme. E a volte i soldi non sono una garanzia: talora si fallisce anche con la pancia piena, specialmente se il piano, come in questo caso, è poco convincente.

Non voglio menare gramo. Intendo ricordare a De Benedetti che per fare concorrenza a un quotidiano che si pubblica da oltre 40 anni occorre qualcosa di importante, molto importante, e dubito che Domani possa giungere a dopodomani. Rammento che Indro Montanelli, non un pirla qualsiasi, ebbe pure l'idea, una volta lasciato il Giornale, di uccidere la sua vecchia creatura con una fresca, la Voce. La quale quando esordì, dopo aver saccheggiato l'organico dell'azienda che Indro aveva abbandonato, fece sfracelli nelle edicole: per circa una settimana vendette intorno a 500 mila copie al dí. Una quantità sbalorditiva, che tuttavia si prosciugò abbastanza in fretta. Mentre il Giornale, di cui io avevo preso le redini, prima resistette alla micidiale offensiva di Montanelli, poi, nonostante fosse diretto da me, in confronto al predecessore una pulce, andò al contrattacco e non solo raddoppiò le vendite nel giro di un anno abbondante, ma altresì costrinse la Voce ad ammutolirsi, tant'è che quest'ultimo chiuse i battenti. Per il suo comandante di alto profilo professionale, fu non soltanto una catastrofe bensì pure una cocente umiliazione.

Questo non significa che io fossi migliore o più abile dell'immenso scrittore toscano, non l'ho mai creduto poiché sono consapevole dei miei limiti. Eppure i fatti sono questi e si spiegano molto agevolmente: i giornali sono come le fidanzate, se i direttori li tradiscono non sai come va a finire. I lettori puniscono il cornificatore e non il cornificato. De Benedetti semplicemente non avrebbe dovuto cedere la Repubblica alla prole, la quale non conosce l'editoria, ed è indifferente alle sue sorti. Egli avrebbe dovuto semmai tenersela e guidarla come aveva sempre fatto, con maestria. Caro Carlo, Paganini non concedeva mai il bis, e dato che lei a suo modo è all'altezza del musicista, invece di replicare in piccolo la gigantesca Repubblica, si limiti ad attenderne il funerale, che non di rado è più divertente del battesimo.

 

 

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