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Vittorio Feltri, il ricordo della scuola: l'amore per la vicina di banco e l'amicizia. "Ecco perché non deve più chiudere"

 Vittorio Feltri

Vittorio Feltri
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A me personalmente, essendo più vicino agli ottant' anni che ai settanta, della scuola importa poco anche se per certi versi ne ho nostalgia, poiché essa ha rappresentato il luogo, o meglio, l' istituzione, che mi ha dato l' opportunità non soltanto di apprendere cose utili, ma pure di avere a che fare con tanti ragazzi, poi diventati adulti, con i quali ho imparato a vivere in gruppo. Anche i miei figli sono cresciuti e non mi devo più arrabbiare con loro perché hanno preso un cinque in latino o in matematica, per cui il problema che le aule siano state svuotate dal governo, causa virus, mi lambisce appena. Infatti penso che bambini e adolescenti, per esempio i miei nipoti, non siano contenti di non frequentare più, da lungo tempo, i loro compagni. Essi, sigillati in casa, non si annoiano solo perché alternano la televisione con le lezioni tramite web, che probabilmente sono una potente rottura di scatole. Alcuni dei miei eredi mi hanno confessato che a scuola non si recavano volentieri, in quanto permanere quattro o cinque ore al dì inchiodati al banco ad ascoltare le fregnacce degli insegnanti non era allettante.

 

 

Tuttavia oggi che l' accesso agli istituti è vietato rimpiangono quella che consideravano una scocciatura: l' apprendimento dalle varie materie previste dai programmi ministeriali. Provano malinconia rievocando la loro classe rumorosa e spesso indisciplinata, hanno voglia di ritornare in quegli stanzoni dove comunque campavano con i loro amici, simpatici o antipatici che fossero. I grandi e i meno grandi e perfino i piccoli hanno bisogno dei genitori, però soprattutto dei professori, pur temendoli, e dei coetanei con i quali, scusate il brutto termine, socializzare. L' umanità ha in uggia la solitudine, gradisce la compagnia.
 

RICORDI GIOVANILI - Questo concetto me lo confermano i miei ricordi giovanili. La mattina faticavo a svegliarmi e l' idea di dovermi appropinquare alle medie o alle superiori mi deprimeva, avrei preferito starmene a letto fino a mezzogiorno. Tuttavia, se mi ammalavo, la solita influenza, già alle dieci ero stanco, valutavo che mi sarei svagato di più con gli scolari del mio gruppo. Ritengo che i giovinetti di oggi non siano molto diversi dal sottoscritto in verde età. Capisco il loro stato d' animo identico al mio di una volta. Rammento con piacere perfino i compiti in classe, i cosiddetti esperimenti. All' improvviso tutti gli studenti tacevano e si dedicavano al tema o alle traduzioni, serpeggiava la paura di beccarsi una insufficienza, e i meno dotati o i più svogliati, per meglio dire, cercavano con gli occhi, non certo con la voce, di ottenere una agevolazione da parte di qualche compagno generoso. Si udivano bisbigli, giravano foglietti con appunti. Erano i sintomi di una solidarietà tra fanciulli accomunati dalla brama di non essere bocciati. Io me la cavavo con la lingua di Cicerone (per il resto ero un disastro) e passavo a un mio caro amico, che sedeva dietro di me, quanto gli bastava per racimolare un voto decente. Il suo cognome era Piazza. Era tondo e buffo, la sua famiglia era numerosa e lui era l' unico prescelto per compiere studi regolari.

Trascorrono decenni, io dirigo il Giornale e un mio collega mi racconta di aver conosciuto il direttore generale di una nota industria farmaceutica, il quale gli ha manifestato il desiderio di incontrarmi, dal momento che non mi aveva più visto dall' epoca in cui sacramentavamo sui libri. Non immaginavo chi egli potesse essere e quando arrivai alla sede della azienda nelle sue mani rimasi di stucco. Era Piazza, tale e quale a quando era poco più che un pargoletto. Ci abbracciammo. Entrambi con gli occhi rossi. Una emozione forte. Egli era diventato un pezzo grosso e ancora mi ringraziava per i famosi e modesti aiutini che gli avevo fornito. La mia non era stata generosità, era frutto del clima di fratellanza maturato tra ragazzini della terza A. Fui ammirato dalla sorprendente carriera di Piazza e non gli nascosi il mio stupore.

Pranzammo insieme nella sua elegante foresteria e allorché gli domandai come avesse fatto a salire tanto in alto, mi rispose alla bergamasca: «Ho finit de studia e dopo ho sgoba», ossia «Ho terminato gli studi, poi ho sgobbato». Abbiamo parlato, riso e rammentato i nostri giorni spensierati. Non nascondo di essermi commosso.
 

CONFRONTO RECIPROCO - Ecco cosa è la scuola. Non se ne può fare a meno per sperimentare l' umanità e se stessi, per stabilire rapporti non banali e di conforto reciproco tra gente in tenera età. Questa si chiama educazione. Poi viene la grammatica. Un' ultima rimembranza. Ebbi una vicina di banco molto carina che mi piaceva da morire, eppure non osavo dichiararmi, paralizzato come ero dalla timidezza e dall' imbarazzo. Ella era terrorizzata dalle interrogazioni e io cercavo di sostenerla con qualche suggerimento, benché non ne avesse necessità. In una circostanza mise la mano sotto il ripiano dove avevamo infilato le cartelle e strinse la mia. Il cuore mi impazzì nel petto, che fosse amore? Viva la scuola. Non chiudetela più. È maggiormente utile della politica.

P.s. A proposito di politica. Si dibatte sulla necessità di organizzare gli esami di maturità, considerati erroneamente obbligatori quando invece sono superflui, se non per i privatisti. Infatti il corpo docente che ha allevato per cinque anni una scolaresca sa perfettamente chi è maturo e chi no. Tra l' altro coloro che sono arrivati in fondo al ciclo degli studi evidentemente sono degni del diploma.
Che bisogno c' è di sottoporli a un giudizio finale nel momento in cui sono giunti all' ultima curva? Le prove della maturità sono dunque inutili e dispersive. Quello che uno ha imparato durante il quinquennio è consolidato, non merita un' ulteriore verifica.

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