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Filippo Facci smonta Nino Di Matteo: "Un magistrato idolo dei manettari che in tribunale colleziona sconfitte"

Filippo Facci
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Torniamo sulla Terra: un Bonafede che si metta a fare «trattative» con dei boss mafiosi (quali, poi) è uno scenario anzitutto che fa ridere e che va relegato alla fantascienza, perché parliamo di gente che non saprebbe trattare per comprare un accendino in spiaggia. Rimettiamo i personaggi e gli scenari al loro misero posto, dunque. L' unico problema politico, parentesi, riguarda il Pd: l'imbarazzo ha un limite, e la prospettiva di doversi tenere ancora a lungo questo cronico incapace è stato mitigato solo dalla pandemia intesa come distrazione di massa, aggravata tuttavia dal dettaglio che intanto l' incapace continuava ad essere capo delegazione dei Cinque Stelle. Nell' insieme, poi, ne escono a pezzi l' incapace, certo, ma anche Antonino Di Matteo, il senzavergogna Marco Travaglio e il governicchio dei decretini. I dilettanti allo sbaraglio, in sintesi, hanno agito così: chiunque abbia votato Cinque Stelle si aspettava che al Dap (Dipartimento amministrazione penitenziaria) dovesse andarci come minimo un Di Matteo, idolo grillino a dispetto di un curriculum alquanto discutibile. Di Matteo era vicino al Fatto Quotidiano (ormai un quotidiano-lobby) e compagno di corrente di Piercamillo Davigo, anche lui amatissimo dai grillini. Però c' era un problema. Anzi due. Il primo è che a Bonafede e a Conte sarebbe tanto piaciuto piazzare al Dap un amico loro, questo Francesco Basentini ora dimissionario, che peraltro era legato a un altro del giro di Unicost, Leonardo Pucci, ora - non a caso - vicecapo di gabinetto di Bonafede ma a suo tempo anche legato a Giuseppe Conte dai tempi dell' università a Firenze. Poi può anche darsi - ma ha scarsa importanza - che abbiano contato i consigli di Fabrizio Di Marzio, altro amico di Conte, consigliere di Cassazione ben introdotto nelle cose romane e a sua volta amico di Gian Carlo Caselli, uno che i pregi e soprattutto i difetti di Di Matteo li conosce quanto basta.
Ma poi c' è il secondo problema, che non ha una fonte diretta ma nei palazzi romani resta un segreto di Pulcinella: a Mattarella, al Capo dello Stato, l'idea di un Di Matteo a capo del Dap è sempre piaciuta pochissimo. Così, dunque, Bonafede ha deciso di tentare di gestire l' operazione e di salvare capra e carceri: l'obiettivo, alla fine, per non scontentare nessuno, era assicurare a un amico del loro giro una delle buste paghe più pesanti dell' intero apparato statale (320mila euro all' anno, con ricaduta su Tfr e pensione) ma accontentare anche Di Matteo convincendolo che la direzione degli affari penali (o generali) fosse il massimo della vita, anche se lo stipendio era esattamente dimezzato. Non ha funzionato. E tantomeno ha funzionato la mozione degli affetti, con l'ostentata sottolineatuta di Bonafede sul fatto che gli affari penali (ora generali) furono il prestigioso e contestatissimo incarico che ricoprì Giovanni Falcone prima di saltare in aria. No grazie, ha ribadito Di Matteo dopo aver inteso che in ogni caso il Dap l' avevano dato a un altro.
Tutto il resto non è grave e non è neanche serio. Francesco Basentini è stato costretto a dimettersi per lo scandalo della scarcerazione dei «boss» (che poi 'sti boss, boss veri, saranno un paio) senza avere neppure particolari colpe, ma poi ecco il capolavoro: la telefonata di Di Matteo alla trasmissione di Massimo Giletti che riesce a suo modo a compromettere le carriere sia di Bonafede sia di Di Matteo. Di Matteo è stato cristallino, chiaro, apparentemente entro le righe, persino pacato: quasi da non farci accorgerere che eravamo fuori dal mondo. Aveva ragione il piddino Andrea Orlando a considerare grave che un ministro possa essere attaccato per i sospetti di un magistrato in diretta telefonica. Più chiaro di lui solo Mario Mori, generale dei carabinieri in pensione e - lui sì - vero eroe antimafia: «Ma come si permette un magistrato della Repubblica di attaccare il ministro della Giustizia in diretta televisiva?... Quello che è accaduto l' altra sera in tv è semplicemente aberrante. Io che ho qualche anno sulle spalle non ho memoria di un magistrato che si rivolge a un ministro con quei modi. È mancato totalmente il senso delle istituzioni». Ricordiamo che Mori è stato assolto dalle gravi accuse di favoreggiamento a Cosa nostra per la mancata perquisizione del covo di Totò Riina, assolto poi anche dall' accusa di aver favorito la latitanza di Bernardo Provenzano. Ora sta affrontando l' appello per la famigerata Trattativa Stato-mafia con l'accusa rappresentata proprio da Di Matteo.
Il quale, in definitiva, che curriculum ha? A che cosa deve tanta popolarità tra i grillini e i travaglini? Non è chiaro. Le minacce di Riina furono un clamoroso fake, per il resto ha raccolto fior d' insuccessi in infinite sentenze che hanno smontato la cervellotica tesi della «trattativa». Ha vinto solo un primo grado: vedremo come finirà. Di Matteo oltretutto è corresponsabile del credito concesso per 15 anni a Vincenzo Scarantino, falso pentito che, dapprima, fece condannare svariati innocenti nei processi per la strage di via D' Amelio. Questo pm non credette alle ritrattazioni del falso pentito e tantomeno ai dubbi di Ilda Boccassini, di altri magistrati e di svariati giornalisti non allineati con la procura, e non è chiaro se vide il verbale investigativo del pentito Gaspare Spatuzza che già nel 1998 - dieci anni prima che lo ascoltassero a processo - raccontava la verità sulla strage e rivelava che la pista di Di Matteo era una cazzata. Contro di lui, ha avuto parole durissime anche la figlia di Paolo Borsellino, Fiammetta, neppure nominata in un ver-go-gno-so editoriale di Marco Travaglio che ricicciava la moritura «trattativa» a sostegno appunto di Di Matteo, già allora designato ministro qualora i 5 Stelle fossero andati al governo. Poi ci sono andati. E non sono riusciti a piazzarlo nenche al Dap. Però alla Giustizia c' è Bonafede, noto genio.

 

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