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Giuseppe Conte il vento è cambiato. Carioti: "Come con Craxi e Renzi. Il 20 settembre la scossa"

Fausto Carioti
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Il vento che soffia su Giuseppe Conte è cambiato e la sensazione è quella di una scena già vista. Come per Bettino Craxi, come per Matteo Renzi, arriva un momento in cui l'incanto si rompe e popolo ed élite ti indicano la porta d'uscita. Chi prima ti applaudiva, adesso ti ferma per strada e ti chiede i soldi che gli avevi promesso. Gli stessi giornali per i quali profumavi d'incenso anche quando avevi la dissenteria, ora ti strapazzano davanti ai lettori. È il segnale che i potentati che li controllano hanno smesso di scommettere su di te: il passo successivo sarà puntare le fiches su qualcun altro. E poi i magistrati, sempre bravissimi a capire quando è vietato toccarti, quando ti si può cuocere a bagnomaria e quando sei pronto per finire in forno: ieri, con le tre ore di interrogatorio a palazzo Chigi, hanno messo l'acqua a bollire.

Assieme al lockdown è finita la tutela politica che Sergio Mattarella aveva garantito a Conte. Adesso un altro premier è possibile (citofonare Franceschini o Gualtieri) e il ritorno alle urne non è più un tabù: il tempo di cambiare la legge elettorale e introdurre quel sistema proporzionale sul quale Pd, M5S e Forza Italia sono già d'accordo, operazione che può essere fatta in un mese. È come se, dopo averlo lasciato lavorare indisturbato per tutto il periodo della pandemia e avergli dato carta bianca per i suoi dpcm e per ogni smania esibizionista, il corpaccione della repubblica avesse deciso che la missione dell'avvocato pugliese è terminata, e che da adesso ogni istante è buono per presentargli il conto. L'unico che non pare aver capito che è iniziato un nuovo gioco è il diretto interessato, vittima della propria coazione a ripetere. A un Paese che dopo tre mesi di torpore si sta svegliando con i morsi della fame e pretende velocità e concretezza, Conte propina, a partire da oggi, altri otto giorni persi, scanditi da ulteriori sue apparizioni, in diretta web e tv. Solo il narcisismo e l'egolatria del premier spiegano infatti la sceneggiata degli «Stati generali», mal digerita pure dal Pd e da Italia viva.

Esito scontato - Il lunghissimo elenco degli invitati a villa Pamphili si divide in due gruppi. Da un lato quelli messi lì per fare scena, tipo le archistar Massimiliano Fuksas e Stefano Boeri. Dall'altro quelli che il polso del Paese lo hanno davvero, come i vertici delle associazioni d'impresa e dei sindacati. Comparse inutili pure loro, però, al pari del governatore della Banca d'Italia e dei rappresentanti delle altre istituzioni, perché sono gli stessi che sciorinano «piani di rilancio» tutti i giorni, e che partecipano alle audizioni in parlamento ogni volta in cui si discute un provvedimento importante. Come la pensano, quindi, si sa benissimo, non c'è bisogno di farli sfilare davanti alle telecamere. Anche perché, se c'è una certezza, è che le idee sensate portate a villa Pamphilj saranno subito sterilizzate dai giallorossi, in nome del «primato della politica». Proprio come è stato fatto con il lavoro della task force di Vittorio Colao. Un copione dall'esito deludente e già scritto, insomma, che ha fatto guadagnare a Conte un'altra ripassata dal Corriere della Sera, stavolta tramite il commentatore Antonio Polito, che ha accusato il premier di mostrare «progressiva enfasi monarchica», nonché «più ingenuità e fregola mediatica che arroganza». Giovedì era stato il giurista Sabino Cassese a denunciare «lo stile leaderistico senza leader» e la sua «azione incoerente di governo». Sono quei segnali di riposizionamento dell'establishment di cui si diceva, che fanno il paio con la linea, ancora più dura, della Confindustria del lombardo Carlo Bonomi.

Quanti errori - Ma gli Stati generali sono solo l'ultimo sbaglio di Conte, non quello che l'ha ridotto così. L'errore che pesa è il fallimento di aprire una fase di coesione nazionale, che la situazione imporrebbe, che Mattarella aveva invocato e per la quale il centrodestra si era detto disponibile, ma che il presidente del consiglio non ha avviato. Non ha voluto, o non ha potuto farlo perché il M5S lo ha richiamato all'ordine, poco cambia: fatto sta che Conte ha smesso di essere un personaggio istituzionale super partes, ruolo che aveva fatto la sua fortuna nei sondaggi, ed è diventato l'ennesima figura partigiana e divisiva. Con la discesa del suo indice di gradimento si è vaporizzata l'ipotesi del soccorso parlamentare che avrebbe dovuto aiutarlo. La pattuglia di forzisti "responsabili", disponibili a puntellare la maggioranza, non c'è più, perché nessuno è così pazzo da aggrapparsi a un premier che affonda. Resta invece il gruppetto di grillini pronti ad abbandonarlo per fare il tragitto opposto e passare col centrodestra. È forte soprattutto alla Camera, ma ne conta pure qualcuno al Senato, dove i numeri del governo già sono risicati. Faranno la mossa solo se saranno decisivi e al momento giusto. La data cerchiata è il 20 settembre, quando si voterà in sei Regioni. Se il centrodestra manterrà le proprie (Veneto e Liguria) e ne sfilerà un paio alla sinistra (occhio a Marche e Puglia), la scossa si sentirebbe sino a palazzo Chigi. In tempi normali non basterebbe a giustificare una crisi di governo, ma per far cadere un premier già frollato basta poco.

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