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Vittorio Sgarbi, il deputato ha ragione nel volere indagare le toghe. Farina condanna la cacciata dall'Aula

Renato Farina
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 Vittorio Sgarbi - stavolta, e non è la prima volta - ha perfettamente ragione. Di più: è stato vittima di un rito barbarico nel cuore stesso della democrazia repubblicana. E con lui a essere stata matata in una arena di vigliaccheria è stato il diritto di dire la verità e il dovere di consentirlo. La cronaca è nota. Ma non è quella che è stata raccontata. Anche chi infatti è benevolo con il critico d'arte e parlamentare, trasferisce l'essenza dell'accaduto sul piano del costume. Come quando si litiga da Barbara D'Urso o da Lilli Gruber: un gioco dove non conta la tensione alla verità ma l'efficacia della battuta o la gravità dell'offesa. Bisogna saltar fuori dal pregiudizio negativo o positivo sul «solito Sgarbi». E osservare quello che ritengo non uno sketch, ma se è stato uno spettacolo appartiene al genere della tragedia. Esagero? Neanche un po'. La vergogna di quel che è accaduto mercoledì a Montecitorio non consiste affatto nelle parole e nei comportamenti di Vittorio Sgarbi, deputato nell'esercizio delle sue funzioni di rappresentante del popolo italiano. L'oscenità sta tutta nell'aver falsificato le sue parole, tramutandone il senso, e averlo perciò sbattuto fuori dall'aula impedendogli di votare un provvedimento infame che allarga all'infinito la possibilità per la magistratura di intercettare chiunque, dovunque e comunque, senza alcun controllo salvo quello della magistratura medesima. Il parlamentare di Ferrara aveva osato l'inosabile. Chiedere un'inchiesta parlamentare non contro la classe politica, o contro un delitto di 40 anni fa, bensì su «magistratopoli, palamaropoli», ovvero sullo scempio dell'onestà e della buona fede del popolo italiano ad opera di una cricca in toga che governa carriere e (a quanto si è udito) sentenze, e che è stata ai vertici dell'Associazione nazionale magistrati, quella che - ha citato correttamente Sgarbi - Cossiga definì «associazione mafiosa». Con una spudorata deformazione, senza avere alcun diritto di interloquire con un collega in dichiarazione di voto, l'onorevole di Forza Italia Giusi Bartolozzi, ex magistrato in Sicilia, ha attribuito a Sgarbi d'aver qualificato come criminali tutti i magistrati. Chi stava dalla parte di Sgarbi (buona parte del centrodestra) non ha contraddetto la deputata che mentiva, mentre grillini e sinistra unanime sono balzati in trecento contro uno addosso a Sgarbi che cercava di far udire il suo non-ho-detto-questo. Lo hanno sommerso di urla. Visto che non lo facevano replicare ed anzi lo inondavano di improperi, ha lanciato invettive, e ha pronunciato, oibò, un sonoro vaffanculo. Dicono anche si sia lasciato andare a parolacce e ingiurie che lui nega di aver profferito (nella registrazione però non si ode l'epiteto «troia» che gli è attribuita nello stenografico della Camera). Fatto sta che appena la canea ha cominciato ha scandire fuori-fuori, immediatamente la presidente Mara Carfagna, per la quale la mia stima resta intatta, ha obbedito e ha letteralmente ripetuto «fuori» cacciandolo dall'aula, con accompagnamento teatrale di commissari che lo tenevano per le mani e per i piedi. Ripeto. Si tende a trattare l'episodio come un fatto di cabaret, tifando alcuni pro e quasi tutti contro Sgarbi, riducendo la cosa a un accidente caratteriale. Si incolpa la sregolatezza linguistica del professore di Ferrara. Molto comodo. È il classico della censura. Usare un frase particolare, che si può vendere all'opinione pubblica come sgradevole, in nome del linguaggio tutto tè e pasticcini che sarebbe in voga in Italia (ma dai), per squalificare ed espellere dall'agorà democratica e civile una denuncia accorata e urgente. Guai a chi tocca il totem, a chi viola il tabù: la degenerazione della magistratura, nei suoi massimi organi rappresentativi (Anm) e di autogoverno (Csm) non può essere nominata. Sgarbi è il migliore - e di gran lunga - oratore a braccio di questa legislatura. Sa alternare e mescolare la raffinatezza al genere retorico dell'invettiva anche salace e veemente, tale da lacerare la camicia o lo chemisier degli avversari di oratoria. L'insulto però all'essenza del Parlamento è quello che è accaduto intorno a lui e contro di lui, per trafiggere e trascinare fuori il dissidente dal pensiero unico. Sgarbi ha avuto la temerarietà di indicare la nudità sporcacciona del re. Ha detto la verità sul potere sommo che si è seduto sull'Italia schiacciandola, e tiene sotto schiaffo minacciando - e quanto accaduto alla Camera ne è la prova - chi non si genuflette. Ci siamo capiti, l'ordine giudiziario ha in mano lo scettro anche in Parlamento.

 

 

Con abilità mostruosa il centro della questione non è più se e quanto il malaffare sia diffuso nella magistratura, e se non sia il caso di investigarvi da parte di un soggetto terzo (il potere legislativo). Il cuore del problema italiano diventa il vaffa. Il filmato mostra il deputato del Pd Emanuele Fiano correre al banco della Carfagna e ripeterle piano con l'aria di chi ha udito la formula con cui Voldemort dissolve il mondo: «...ha detto "vaffanculo"!». Sul serio. Ho trascritto lo stenografico. Dio mio, ha detto vaffanculo! Qualcuno chiami De Luca con i lanciafiamme. Che razza di ipocrisia. Fiano e i suoi dem così pudichi sono alleati e governano con chi di questa sollecitazione al meretricio posteriore ha fatto l'essenza della sua politica. E adesso diventa pretesto per trasferire nel mondo delle parolacce un giudizio politico e morale sullo scandalo di una magistratura malata.

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