Rischia l'osso del collo

Pietro Senaldi: Zingaretti sempre più agitato, se a settembre perde 4 regioni su 6 addio Pd

Pietro Senaldi

 Il segretario dei Dem è piuttosto agitato. Lo si capisce dalle dichiarazioni che rilascia in questi giorni, più stralunate del solito, insensate e masochiste quanto un viaggio da Roma a Milano per prendere un aperitivo ai tempi del Covid-19. Ieri, per aggravare la situazione della ministra dell'Istruzione Azzolina, ha proposto di tenere lezioni in teatri e musei a partire da settembre, ma anche di costruire tecnostrutture sul territorio da adibire ad aule e trasformare poi in palestre, quando l'epidemia sarà un ricordo. Questo perché la scuola, ha spiegato, «ha bisogno di certezze». Il giorno prima si era spinto oltre. Nel goffo tentativo di sdrammatizzare gli effetti della crisi, era riuscito a dire che gli italiani «hanno l'ossessione di guardare solo agli elementi negativi, senza accorgersi delle opportunità create dalla crisi, come coloro che continuano a lamentarsi di aver sete anche quando l'acqua è arrivata». Per inciso, l'acqua a cui alludeva il segretario sono i quattrini dell'Europa, che nessuno vedrà prima della fine dell'anno. Mentre le opportunità sarebbero l'economia verde, la tecnologia nelle aziende, la mobilità sostenibile, l'industria 4.0 e l'istituzione di un Consiglio Nazionale per l'industria. La narrazione del segretario dei dem sulle attività del governo è più retorica e inconcludente di quella di Conte, tant' è che in un attimo di resipiscenza è lo stesso leader a dire che «serve concretezza e bisogna chiudere i troppi dossier aperti sul tavolo del governo».  Zingaretti è il capo della seconda forza della maggioranza, ma quando parla dell'azione del governo lo fa sempre come se fosse uno spettatore e la cosa lo riguardasse solo tangenzialmente. È una tecnica perché nessuno gli addebiti la paralisi dell'esecutivo, dalla cui responsabilità invece non si può sfilare. Il fatto è che, da qualunque parte si guardi, il segretario trova qualcuno migliore di lui pronto a fargli le scarpe. A settembre si voterà in sei Regioni e la sinistra rischia di portarne a casa solo due. Il Veneto, feudo personale di Zaia, è perso. La Liguria, unica regione dove M5S e Pd sono riusciti ad accordarsi un candidato comune, il giornalista del Fatto Quotidiano Ferruccio Sansa, già vicino di casa di Grillo con vista mare e figlio di un sindaco eletto grazie ai Ds, è quasi del tutto compromessa. Restano contendibili Puglia, Marche, Campania e Toscana. Nelle prime due la sinistra, che ha la presidenza uscente, è in svantaggio. Nelle altre due, un'eventuale vittoria dei Dem non andrebbe a merito del segretario bensì di Renzi in quel di Firenze e del candidato De Luca a Napoli. Due figure forti che fanno ombra al segretario, il quale invece porterebbe il peso della responsabilità di una sconfitta in Puglia, per non aver saputo tenere unita la coalizione, e nelle Marche, per aver perso un fortino da sempre presidiato con successo. Qualora invece Emiliano ribaltasse i pronostici e riuscisse a farsi riconfermare nel tacco d'Italia, tutti i meriti andrebbero al corpulento governatore. Renzi è conscio della propria debolezza e ha smesso di terremotare la maggioranza in attesa di tempi più opportuni. I grillini sono stati ammazzati da Grillo e aspettano di consegnarsi a Conte. Il Pd, benché ormai non abbia più quasi nessun esponente di rilievo, è invece senza pace. Al governo è tutto un vorrei ma non posso, i dem sono paralizzati dall'alleato pentastellato e tenuti in disparte dall'onnipresente premier. Chi governa il territorio, dall'emiliano Bonaccini al bergamasco Gori fino al milanese Sala, avverte il disagio di non essere rappresentato adeguatamente a Roma e un giorno sì e l'altro pure tira strattoni nella speranza di ridestare il segretario o di farlo cadere una volta per tutte. Il sindaco orobico ha perfino detto una volta che i Dem dovrebbero dare spazio agli amministratori locali, rendendo palese che nel partito nessuno si ricorda neppure che Zingaretti è anche presidente del Lazio. 

 

 

 

È vero che il supposto leader, la cui forza dovrebbe essere tessere dalle retrovie la tela del potere, in realtà tocca poche palle. Al governo, e presso il Quirinale, Franceschini conta più di lui. Nelle riunioni tra le Regioni, il suo ruolo partitico lo relega ai margini. In Europa, perfino Sassoli, in quanto presidente del Parlamento di Strasburgo in quota Pse, ha più peso di lui e lo mette in ombra, mentre in Commissione, basta il felpato e letargico Gentiloni a oscurarlo. A differenza del fratello Luca, Nicola è ancora un personaggio in cerca d'autore, e di autorevolezza. Non sa come sfuggire a un destino che sembra segnato, quello di finire lesso nel calderone di una maggioranza in perenne ebollizione. Zingaretti è indaffarato a non far scoppiare la pentola a pressione. Se l'opera gli riuscirà, avrà preparato un pasto che poi si mangerà qualcun altro al posto suo. Se invece fallirà, né uscirà con le penne bruciate.