Il pm

Luca Palamara, Renato Farina: può chiudere una stagione di oscuri traffici giudiziari. Se non gli tappano la bocca

Renato Farina

E se Luca Palamara fosse, omicidi e Andreotti a parte, il Tommaso Buscetta dei tempi nuovi? Somiglianza paradossale, certo. E però siamo davanti a due pentiti di grosso calibro che, dopo aver subito torti inescusabili, hanno girato il cannone contro le rispettive famiglie dove facevano il bello e il cattivo tempo, e dalle quali sono stati rinnegati e puniti per essersi messi di traverso ai nuovi equilibri di potere. Ci sono due differenze. 1- La magistratura non è la mafia, non ci permetteremmo. Migliaia di oneste toghe dedicano la vita alla giustizia e qualche volta la rischiano e per la buona causa l'hanno perduta. Resta il fatto che il Trojan infilato nel cellulare dell'ex presidente dell'Anm, nonché ex capo corrente ed ex membro del Csm, e presto ex pm tout-court, ha rivelato un intrico di relazioni tra procuratori e giudici, inciuci con giornalisti a scopo promozionale per entrambi, pressioni per far condannare politici poco amici delle procure, eccetera, dove la preoccupazione degli eminenti capo bastone è quanto di più lontano dall'equità e dall'imparzialità si possa immaginare. 2- Buscetta ha finito il suo lavoro e ha sistemato per le feste i suoi nemici d'alto rango criminale. Palamara non ha ancora cominciato. Vedremo se glielo lasceranno fare. Il 20 giugno era stato espulso dall'Anm, dopo che gli era stato vietato sulla base di un codicillo moscovita di difendersi. È allora che ha annunciato un'operazione verità, che somiglia alquanto ad un'auto-bomba con lui al volante diretta nelle sacre aule dei Tribunali, e soprattutto nei retrostanti corridoi e camere di scarso consiglio. Un repulisti che di sicuro coinvolgerà anche lui, ma sarà l'occasione di un lavacro di categoria mai visto.

 Toghe ed ermellini finiranno chi in tintoria chi in pellicceria. La decisione è di vuotare il sacco: non con un chiacchiericcio di corridoio o tra le urla di un talk-show ma davanti a un'Alta Corte. In questo caso non come testimone in una commissione parlamentare d'inchiesta che serve di solito a colorare ideologicamente la realtà, ma in un vero e proprio processo, sia pure disciplinare, davanti al Consiglio superiore della magistratura, dove comparirà il 31 luglio per la prima udienza. È convocato a Palazzo dei Marescialli nelle vesti di incolpato. Ha pronta una lista di circa cento testimoni delle proprie e altrui malefatte. Glielo lasceranno fare? Sergio Mattarella per l'occasione, come fece Francesco Cossiga in casi drammatici, non dovrà perdere l'occasione per esercitare di presenza il suo ruolo costituzionale di presidente, per garantire trasparenza ed equità. Lui ha autorità e autorevolezza perché la più grave crisi istituzionale che sta travolgendo il terzo potere della Repubblica, il più delicato, non si risolva nel rito ipocrita del capro espiatorio ma neppure nell'altrettanto furbesco tutti colpevoli -nessun colpevole.

 

 

 Cosa nostra fece di tutto per tappare la bocca a Tommasino, detto Il "boss dei due mondi": gli ammazzò figli e parenti. Tenne duro. Finché ebbe Giovanni Falcone al fianco non inciampò in contraddizioni e fu determinante nel maxi-processo dove disegnò l'architettura della Cupola, sbugiardò in confronti leggendari i mamma santissima che pensavano di intimidirlo e ne fece condannare a centinaia. Don Masino, così era chiamato, pur essendo un conclamato assassino si meritò un trattamento coi fiocchi da Enzo Biagi che scrisse un libro con lui trattandolo da eroe, e da Marco Bellocchio che gli dedicò un film mitologico. Con Palamara l'apparato opaco della sua casta punta a renderlo inoffensivo. Escludiamo - e ci mancherebbe - metodi da lupara, non siamo a Gomorra, ma conoscendo i metodi degli alti pennacchi scommettiamo sulla volontà di radiarli in fretta e senza cerimonie. Una mela marcia da buttar fuori in fretta dal cesto. Tre o quattro testimoni e chiusa lì. Non provateci. Palamara, alias don Luca Buscetta, riconosce di essere stato ingranaggio importante di un sistema che si reggeva su regole pessime ma condivise, e praticate da magistrati di ogni fazione della consorteria togata. L'omertà non è ammessa.