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Bonaccini fregato sul più bello nel Pd? Zingaretti vicino all'addio, Orlando può fregare il governatore emiliano

Elisa Calessi
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Un emiliano contro un ligure. Entrambi uomini di partito, quello con la P maiuscola, con un cursus honorum d'altri tempi, dalla sezione ai primi incarichi elettivi in comune, poi, un passo dopo l'altro, uno al governo della Regione, l'altro a quello nazionale. Non si sa ancora quando, ma nel momento in cui la corsa nel Pd si aprirà, la sfida, è la voce insistente tra i dem, sarà tra Stefano Bonaccini e Andrea Orlando, rispettivamente governatore dell'Emilia Romagna e vicesegretario del partito. Per il momento le pedine sono ferme perché non si quando la partita ci sarà. Ma gli spostamenti, le trattative, le basi per nuove alleanze, i ragionamenti sul futuro sono cominciati. In attesa che suoni il gong, le certezze sono poche. La prima è che Nicola Zingaretti non intende, per ora, convocare alcun congresso anticipato. Per la pandemia, per la fragilità del governo, perché non c'è motivo di mettersi in discussione e nessuno, del resto, osa sfidarlo in questo momento. L'occasione che potrebbe riaprire i giochi prima del tempo, però, potrebbe presentarsi in autunno. E si chiama rimpasto.

 

 

 

L'interessato lo smentisce, ma sono in molti, da mesi, a spingere perché Zingaretti entri nella squadra di governo. In quel caso, il congresso sarebbe inevitabile. L'altro possibile detonatore sarebbe una sconfitta pesante alla Regionali. Ma è meno probabile che sia sufficiente. Nel senso che nel Pd già mettono in conto che andrà male: le previsioni sono di perdere 5 a 2, mantenendo solo Campania e Toscana. In ogni caso, quando la partita ci sarà, gli sfidanti sono pronti: Bonaccini corre per essere il candidato dell'area riformista. Ma non è detto, dicono i suoi sostenitori, che non possa diventare un candidato unitario. Orlando, invece, già da un po' corre per fare il candidato più di sinistra, che recuperi una identità più marcata, senza nostalgie, ma anche senza annacquamenti. Sarebbe sostenuto innanzitutto dal giovane e agguerrito ministro del Sud, Peppe Provenzano. Si parla, poi, di altri possibili candidati: da Beppe Sala a Giorgio Gori. E magari di una donna, almeno per colmare, formalmente, il paradosso per cui l'unico partito con un leader di donna è quello più a destra, Fratelli d'Italia.

Divisioni bibliche - Intanto, in attesa di capire se e quando si giocherà la partita, il Pd si divide sulla Libia, dopo il voto sulle missioni militari che ha visto una spaccatura nei gruppi. Graziano Delrio, capogruppo alla Camera, ha provato a calmare gli animi, ammettendo che «occorre fare presto, fare di più, fare bene», cambiare il memorandum firmato dal governo nel 2017. Ma «il disimpegno» rischia di fare peggio. Restano contrarissimi, invece, i Giovani Turchi, con Giuditta Pini che ricorda come sia stato «ignorato» l'ordine del giorno votato dall'assemblea nazionale il 22 febbraio scorso «che aveva tra gli impegni quello di prevedere il superamento del ruolo della guardia costiera libica secondo le indicazioni delle Nazioni Unite e del consiglio d'Europa».

Tutti sulla stessa barca - Non la pensa così Lia Quartapelle, secondo cui il rinnovo del sostegno alla Guardia costiera libica «evita un pericoloso vuoto di potere», anche se ora si deve lavorare per l'«attivazione di corridoi umanitari che svuotino i campi e una rapida modifica del memorandum». Prova, Emanuele Fiano, a dire che, in fondo, sono tutti dalla stessa parte: «Anche io e tutto il Pd, come te, Matteo Orfini, sappiamo bene da che parte stare quando parliamo degli stupri, delle violenze e degli omicidi che avvengono in Libia. Ci divide la proposta, non la sensibilità». Per un partito, però, dividersi sulla proposta non è poco.

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