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Alessandro Sallusti, un retroscena clamoroso: "Quella telefonata di Mentana per mettere i bastoni tra le ruote di Feltri"

Alessandro Sallusti
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Ho partecipato al concepimento ma il giorno del parto ero assente, doglie eccessivamente lunghe e costose avevano prosciugato le mie modeste finanze costringendomi a trovare un altro lavoro. Riabbracciai il piccolo Libero che aveva solo tre mesi di vita, cosa che almeno nella mia testa mi permette oggi di pensare che sono anche io tra i suoi padri, putativo ma pur sempre padre, o comunque almeno zio. Per capire meglio la storia di quel luglio 2000 il nastro, per quanto mi riguarda, va riavvolto di oltre un anno. Siamo nella primavera del 1999, dirigevo la Provincia di Como, quotidiano leader della mia città natale dove ero felicemente e convintamente approdato dopo un lungo girovagare per giornali di mezza Italia. Stavo da Dio, i quotidiani ancora si vendevano a chili e nelle città di provincia il direttore era fisso sul podio delle autorità da riverire insieme a sindaco e vescovo. Stavo da Dio fino a che una sera ricevetti l'invito per un dibattito che si teneva a una sagra di paese, parole e salamelle in libertà. Non immaginavo di trovarmi sul palco insieme a Vittorio Feltri, è un po' come se gli amici ti invitano a una partita di calcetto scapoli-ammogliati e ti ritrovi in campo con Ronaldo. E non immaginavo che, almeno per me, quella sera sarebbe stato concepito Libero.

GALEOTTA FU LA SALAMELLA
 Il rapporto galeotto avvenne su uno dei banconi unti tipici delle sagre. Feltri, che non avevo mai visto prima in vita mia, saltò i preliminari e andò subito al sodo: «Amici comuni - esordì - dicono che sei in gamba, sto pensando di fondare un giornale, voglio che tu venga con me». Non opposi resistenza, fui sedotto ma non abbandonato. Dopo quella sera ne seguirono infatti tante altre, con quel progetto e con quell'uomo, fu amore a prima vista, folle e travagliato come tutti gli amori a prima vista. In pochi giorni abbandonai comodità e certezze che avevo raggiunto e mi tuffai nella bolgia feltriana, un girone dantesco dove tutto è chiaro ma nulla certo e che per di più è popolato da personaggi che definire bizzarri, sia nel bene che nel male, è un eufemismo. L'idea di Libero non riusciva a decollare, o meglio, non si trovavano i soldi per comperare il carburante e accendere i motori. Tanto che Feltri, pur di partire, imboccò una scorciatoia: non un "suo" nuovo giornale ma comunque un nuovo giornale. In quell'estate del 1999 nacque così il Qn, fascicolo nazionale unico di tre grandi quotidiani regionali di proprietà dell'editore Andrea Riffeser (Carlino, Nazione e Giorno) di cui Feltri divenne direttore e io condirettore. Non funzionò, non poteva funzionare, non era quella di stare sotto padrone l'idea originale. Pochi mesi di lavoro e addio Qn, ci ritrovammo al punto di partenza di quella notte alla sagra ma non più tra tavoloni, salamelle e birra: le discussioni serali a quel punto procedevano nei migliori ristoranti milanesi con prelibatezze e buon vino. Perché, è questo il primo motto di Vittorio Feltri che ho fatto mio, «nelle difficoltà il corpo non deve soffrire». Sera dopo sera il progetto di Libero cresceva ma il mio portafogli si svuotava. Ero un disoccupato, felice ma pur sempre disoccupato. Però cominciavo a capire il "liberismo", inteso come genere di giornalismo evoluzione del già collaudato feltrismo.

Di seguito alcune chicche: «Non ci sono giornalisti professionisti disposti a venire con noi? Meglio, trovatemi dieci ragazzi che siano entrati almeno una volta in un'edicola, al resto penso io»; «Ecco che giornale ho in mente: è quello che vende, quello bello lo lasciamo fare agli altri»; «Per fare un giornale basta che ogni giorno mi diate non dico una ma almeno mezza notizia»; «Sul mio giornale non ci saranno mai in prima pagina le parole mafia, Ustica e Netanyahu, non gliene frega niente a nessuno».

I CORTEGGIAMENTI
Tante parole ma fatti ancora zero. Un bel giorno, penso fosse febbraio, ricevo una telefonata da Enrico Mentana, direttore del Tg5: «Ti offro la vicedirezione del mio telegiornale, guarda che paghiamo bene». E la mattina seguente chiama Nini Briglia, direttore di Panorama, allora corazzata Mondadori: «Vieni subito a fare il mio vicedirettore, lo stipendio lo decidi tu». Caspita, mi sono detto, non sapevo di essere così ricercato. Onore e soldi sono un mix micidiale, soprattutto per i giornalisti. La mente si offusca e non vedi il trucco che ovviamente c'e: Mentana e Briglia non avevano bisogno di alcun vicedirettore, tantomeno di me.

Volevano solo sottrarmi a Feltri - che da poco aveva lasciato il Giornale che di quella galassia berlusconiana faceva in qualche modo parte e di cui Libero sarebbe stato concorrente - e intralciare più di quanto già lo fosse di suo la partenza del nuovo quotidiano. Ecco spiegato perché, quando a luglio Libero vide finalmente la luce io non ero lì ma inutilmente seduto sulla prestigiosa poltrona di vicedirettore di Panorama. Guardavo i primi incerti passi di quel foglio e mi mordevo le mani. Ogni giorno speravo di ricevere l'unica telefonata che avrebbe avuto un senso, quella di Vittorio Feltri. Che a fine agosto arrivò: «Ciao direttore - gli dissi - sei ancora arrabbiato con me?». «Molto - rispose - ma se vieni a darmi una mano mi passa». La sera stessa ero da lui. Ci trovai anche Urbano Cairo, solido editore che giurava di voler diventare socio di Feltri e garantire i nostri stipendi. Il giorno dopo mi dimisi da Panorama e quello dopo ancora scoprii che Cairo si era volatilizzato. Di nuovo disoccupato. Mi presentai comunque nella redazione di Libero sotto il ponte della ferrovia che attraversa viale Monza. Finalmente ero libero a Libero, anche se per due anni non vidi lo straccio di un contratto e intascai solo qualche spicciolo che di tanto in tanto mi allungava tale Stefano Patacconi, eccentrico imprenditore romagnolo fan e finanziatore di Feltri che di lì a poco, spero non per colpa nostra, si suicidò gettandosi con l'auto in mare. Il resto della storia la conoscete, è quella che avete letto in questi vent' anni di gioie e dolori. Perché fin dall'inizio dell'inizio, a Libero mai nulla è stato normale, e credetemi - glielo auguro - mai lo sarà. Buon compleanno, figlioccio. 

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