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Pietro Senaldi, otto italiani su dieci vogliono le scuole chiuse: il sondaggio che inchioda il premier Conte e la Azzolina

Pietro Senaldi
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Eravamo un popolo di santi, poeti e navigatori, diventeremo una nazione di somari, sani e felici ma poveri e impreparati alla vita e al lavoro. Più si avvicina la data dell'inizio dell'anno scolastico, meno è chiaro come esso si svolgerà. La vaghezza del governo e le continue informazioni contraddittorie, quando non grottesche, contribuiscono ad aumentare il panico tra i genitori più di quanto non facciano i bollettini quotidiani dei contagi. E a questo punto la situazione drammatica non è più attribuibile alla sola inadeguatezza della ministra dell'Istruzione, Azzolina, visto che il premier Conte l'ha di fatto commissariata avocando a sé le decisioni strategiche. Il risultato è che soltanto due italiani su dieci (per l'esattezza il 22%) sono favorevoli alla riapertura delle scuole a queste condizioni. Lo rivela un'analisi di Spin Factor, società specializzata nella consulenza strategica politica, istituzionale e aziendale, che ha analizzato i commenti dei cittadini sui principali social della rete, Facebook, Instagram e Twitter, secondo la quale ben il 41% del campione sarebbe totalmente contrario alla ripresa delle lezioni, mentre il restante 37% vorrebbe ben altre garanzie per mandare i figli in classe. Come dargli torto Questi dati sono un ceffone al governo. Qui non si tratta di ragazzi svogliati, professori demotivati o che hanno paura di contagiarsi, sindacati che si mettono di traverso, fannulloni che vogliono tenere i figli lontani dalle aule per poter continuare a far finta di lavorare da casa. La stragrande maggioranza di italiani che teme la riapertura delle scuole è fatta di genitori secondo i quali i banchi rotanti ordinati dal commissario Arcuri non sono prevenzione ma soldi buttati dalla finestra e le mascherine in classe sono una tortura inutile, visto che poi in mensa e a ginnastica bambini e ragazzi si stanno addosso liberamente ed è impossibile, ma forse anche sbagliato, impedire che lo facciano. Tutta gente che non si fida dello Stato e alla quale il governo in sei mesi - le scuole sono chiuse dai primi di marzo, unico caso al mondo -, non è stato capace di dare risposte credibili.

 

 

Se ce ne fosse stato bisogno, il Covid-19 ha dimostrato che in Italia l'istruzione è meno importante del campionato di calcio, delle cene al ristorante, delle ferie d'agosto, dei viaggi nelle isole croate ad alto rischio contagio, del festival dell'Unità, della mostra del cinema di Venezia e perfino delle serate danzanti in discoteca. Da mesi politici, intellettuali, giornali, professori, psicologi, economisti ci martellano spiegando che rischiamo di perderci una generazione. In Europa siamo quelli che se lo possono permettere di meno, visto che abbiamo meno diplomati (solo il 62%) e laureati (20%) degli altri e che uno studente su quattro ha gravi lacune scientifiche, i quindicenni mediamente non capiscono tutto quello che leggono; prestazioni di gran lunga al di sotto di quelle dei coetanei del Continente. E però ci siamo ridotti a giocarci la partita della vita negli ultimi minuti: restano meno di tre settimane per far ripartire la scuola in sicurezza e nessuno a Roma ha idea di come fare. Ancora ieri Regioni e governo si accapigliavano. Non sappiamo se dovremo misurare la febbre ai nostri figli a casa ogni mattina, prima delle lezioni, o se ci penserà la scuola, con quelle buffe pistole che sono un capolavoro di imprecisione e che non sembrano in grado di durare un anno intero. I banchi della Azzolina ruotano talmente tanto che ancora sono in orbita e nel frattempo ci si arrangerà con lezioni alternate e orari scaglionati. Ma su ingressi e uscite è ancora buio fitto. Come sugli scuolabus. Pare che il viaggio non possa durare più di quindici minuti, forse perché gli esperti dell'esecutivo hanno calcolato che il contagio scatta solo dopo il quarto d'ora; peccato che, tra traffico e fermate per far salire gli allievi, potrà usufruire del servizio solo chi abita a un chilometro massimo da scuola, e quindi ci potrebbe andare a piedi, metodo più sicuro e ambientalista.

 

Potremmo continuare per pagine intere, parlando per esempio dei presidi che non vogliono riaprire finché il governo non gli concederà lo scudo penale o dei prof che si stanno scoprendo positivi proprio adesso che devono tornare in classe; avranno passato l'estate in discoteca con i loro alunni... La finiamo qui per carità di patria, esprimendo solidarietà alle famiglie e al governatore Toti, quello che non vuole le mascherine in classe. Il governo, al momento, prevede che se un alunno viene trovato positivo, si mandano in quarantena tutti i compagni, famigliari inclusi. Con il doppio risultato di continuare a interrompere l'anno, perché a ogni contagiato ci si ferma quindici giorni, e di impedire agli adulti di andare al lavoro. Scelta sciagurata, quando è evidente che l'unica soluzione al problema che garantisca la normalità è fare immediatamente i tamponi a tutti. L'esecutivo lo fa per gli immigrati e i turisti, non per il mondo dell'istruzione, evidentemente tenuto in minore considerazione. Quanto alle mascherine, in mano ai bambini, che devono toglierle e rimetterle di continuo, più che uno strumento di prevenzione diventano una bomba batteriologica e arma di contagio di massa. Come al solito, trasformiamo ogni situazione in paradosso. Per tutelare la salute non vogliamo andare a scuola, facendo finta di ignorare che meno si è istruiti, più si è poveri o lo si diventa, e più si è poveri più ci si ammala, meno accesso si ha alle cure e prima si muore, anche di Covid, come dimostra l'articolo del nostro Alessandro Gonzato nelle pagine seguenti. Morale, il virus si batte nelle scuole sicure, non nelle case trasformate in bunker dall'incompetenza, non si sa quanto involontaria, del governo Conte. Che, se la riapertura della scuola sarà un flop, non potrà scaricare la colpa su nessuno e farebbe bene a trarne le conseguenze.

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