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Pietro Senaldi, la congiura nel Pd contro Nicola Zingaretti: il ruolo di Giorgio Gori

Pietro Senaldi
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Se l'autunno di Conte sarà caldo, quello di Zingaretti sarà allo spiedo. Il premier senza partiti, almeno per il momento, si è cucinato i leader delle due forze principali che lo sostengono. Di Maio ha dovuto cedere il comando, il segretario del Pd rischia di doverlo fare a breve, avendo più nemici tra i democratici che all'opposizione. La componente non trinariciuta dei democratici si sta organizzando per mettere in croce il presidente del Lazio e la data di inizio del calvario è fissata per il 21 settembre. Quel giorno infatti Zingaretti rischia di dover giustificare ai suoi e agli elettori una sconfitta alle Regionali, con Salvini e Meloni pronti a cantar vittoria, e di dover fare i complimenti a Di Maio per aver trionfato nel referendum che taglia i parlamentari, sul quale il Pd si è di fatto spaccato.

 

 

Uno dei grandi registi dell'operazione che dovrebbe portare a dare il benservito al fratello di Montalbano è il sindaco di Bergamo, Gori, ex renziano di ferro, che spinge per mandare in prima linea il presidente dell'Emilia-Romagna, Bonaccini, il quale fa sempre più fatica a nascondere di non vedere l'ora che il golpetto avvenga. Sono tutti pronti con la bottiglia di champagne per festeggiare e c'è già chi mette in giro la voce che il siluramento di Zingaretti potrebbe perfino portare, per una volta, a una riunione anziché a una scissione nel Pd, con Renzi e i suoi di Italia Viva pronti al rientro. Al complotto Franceschini è iscritto di diritto, stante l'esperienza nell'ordire trame, come lo è Orlando. Ma ci sono anche parecchi insospettabili, ex pezzi da novanta che l'attuale segreteria ha relegato in seconda fila.

Al presidente della Regione Lazio i dem attribuiscono la responsabilità di non essere riuscito a imprimere una linea politica al movimento, facendosi trascinare dall'agenda e dalla moda di turno. I soliti sinistri: nominano uno capo perché è debole, e poi lo mandano via rimproverandogli di esserlo; quando invece gli capita di trovare un leader forte, lo cacciano con la scusa che è prepotente e fa di testa sua. Certo che Zingaretti ha colpe politiche enormi. La prima di essersi fatto infinocchiare da Renzi l'anno scorso. Nicola voleva votare e invece si è trovato a sostenere un governo non suo con parlamentari che non gli rispondono e tutti i grandi del partito che hanno fatto un passo indietro dall'esecutivo; tant' è che per (in)competenza si fatica oggi a distinguere un ministro piddino da uno grillino. Il segretario Nicola in fondo fa lo stesso lavoro di suo fratello, Luca: è un attore, interpreta un copione mettendoci la faccia, perché l'anima non gliela si trova proprio, più che il cervello.

E però le principali ragioni per cui il Pd farebbe bene a liberarsi del suo capo, e magari a sostituirlo proprio con il sindaco Gori o con il presidente Bonaccini, non attengono ai tatticismi politici bensì alla capacità di governo. Tra tutti gli amministratori dem, Zingaretti è quello uscito peggio dal Covid, e non solo perché è stato il primo a prenderlo, dopo un'improvvida trasferta per aperitivo antirazzista a Milano, contagiando anche colleghi governatori e compagni di partito. Se il presidente del Lazio non è stato lapidato per la sua gestione della pandemia è solo perché, essendo il leader del Pd, gode di ottima stampa. Ce lo ricordiamo precipitarsi allo Spallanzani, a febbraio, per festeggiare l'isolamento del virus da parte di ricercatrici precarie che la Regione non aveva mai assunto. Pareva che la scoperta fosse sua e il rischio contagio scongiurato per sempre. Forse ci credeva davvero, e per questo è salito in Lombardia per presenziare ai cocktail al Covid di Sala. Ma poiché la malattia non è una colpa, anche se si è fatto di tutto per prenderla, conviene soffermarsi sull'operato di Zingaretti piuttosto che sulla sua cartella clinica.

In Lombardia hanno crocifisso Fontana, a marzo perché si è messo la mascherina prima di tutti a favore di telecamera e in estate perché si è scoperto che aveva regalato dei camici alla Regione, trasformando in gratuito un appalto spuntato dall'azienda del cognato. Ebbene, verso Pasqua il Lazio ha ordinato un milione di tute protettive e 850mila camici, con pagamento anticipato di 2,8 milioni di euro. Ne sono arrivati solo 150mila, peraltro inutilizzabili perché congelati dalla procura che indaga sull'affare. Una vicenda che sembra il secondo atto di quella legata all'ordine di 7,5 milioni di mascherine mai arrivate nonostante l'anticipo di 11 milioni di euro da parte della Regione.

Come chiunque sa di averla fatta grossa, Zingaretti si difende sparandola ancora più grossa, ovverosia attaccando in modo scomposto. Si ammala ma accusa Salvini e Meloni di essere degli untori, sorvolando sul fatto che per trasmettere il virus bisogna prima contagiarsi, cosa riuscita a lui e non ai sovranisti. I romani vanno a svacanzare in Costa Smeralda e lui accusa la Sardegna di averli infettati, anche se sull'isola, prima dello sbarco in massa dei sudditi di Nicola, il virus era una rarità. Adesso rimprovera al governatore Solinas di non aver fatto i tamponi a chi si imbarcava da Olbia per Civitavecchia, omettendo che neppure lui ha sottoposto a test chi il mese scorso ha preso il mare sulla rotta inversa. L'ultima fesseria è stata dire che, se governassero i sovranisti, in Italia ci sarebbero le fosse comuni in spiaggia. E' un'ipotesi. Il dato di fatto è che il Paese è governato dagli illuminati giallorossi e l'indice di morti per milione di abitanti è superiore a quello di Ungheria, Usa e Brasile, le terre dove regnano i cosiddetti negazionisti di destra.

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