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Gregoretti, Alessandro Giuli: "La sinistra ha già la sentenza, Salvini mer***a"

Alessandro Giuli
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Non basta il processo mediatico-giudiziario, vogliono già scrivere a lettere di sangue la sentenza di condanna e renderla esecutiva in piazza giustiziando l'arcinemico sovranista. Quella andata in scena ieri a Catania, a pochi passi dal Palazzo di Giustizia dov' era in corso l'udienza preliminare per Matteo Salvini accusato di sequestro di persona in relazione al caso della nave Gregoretti, è stata l'ennesima testimonianza della professione d'odio da parte di una sinistra abituata a risolvere le questioni politiche in modi spicci e violenti. Di là dalle ragioni (o dai torti) dell'accusato, ancora una volta abbiamo dovuto assistere al rogo in effigie di un leader messo alla sbarra fisicamente e massacrato simbolicamente da una folla esigua ma rumorosa e scomposta. Le cronache, e le immagini a corredo, ci restituiscono la rappresentazione di un'assemblea giacobina che distribuiva rotoli di carta igienica con sopra impressa la foto del capo della Lega, mentre si alzava lo striscione con su scritto il verdetto dei facinorosi: «Abbiamo già la sentenza. Salvini merda». Per comprendere come non si trattasse di un vezzo ironico, bastava allargare il grandangolo fino a inquadrare il cartello con la rivendicazione definitiva: «La giustizia non la fa un tribunale». Il sottotesto implicito è sempre lo stesso da almeno mezzo secolo a questa parte, valeva un tempo per le minoranze culturali di destra e ha furoreggiato per almeno venticinque anni di berlusconismo: in Italia l'amministrazione sostanziale della giustizia è l'appannaggio di una minoranza egemonica che si autointesta la titolarità della volontà generale e della ghigliottina sempre a disposizione del sedicente popolo e delle sue tricoteuses di complemento. Tuttavia il caso di Salvini si carica di ulteriore valenza simbolica, essendo lui il nuovo polarizzatore delle paure e dei consensi pubblici. Agli occhi dei sanculotti improvvisati e dei loro residuali ma potentissimi mandanti annidati nei luoghi della decisione e della comunicazione, l'ex ministro dell'Interno deve scontare l'aggravante imperdonabile d'aver costruito la sua fortuna proprio grazie alla narrazione del popolo e dei suoi diritti sovrani. Tale espropriazione, che fin dall'inizio gli è valsa la non strabica accusa di populismo, ha mandato in letteralmente in tilt gli schemi e gli equilibri dei presunti custodi degli svantaggiati, dei ceti umili e del nuovo proletariato post borghese abbandonato dalla sinistra globalista. Ricordate quando il compagno Pier Luigi Bersani denunciava - con ottime ragioni - la transumanza di voti operai dai post comunisti alla Lega? Ecco, questa è la chiave per comprendere la rabbia delle comparse finite in scena a Catania e, si badi bene, ovunque Salvini sia impegnato a comiziare in giro per l'Italia.

Vecchi vizi giacobini - E qui arriviamo al secondo punto essenziale della vicenda. Quando i centri sociali sciamano davanti al Palazzo di Giustizia siciliano per manifestare contro «le giornate di odio e becera propaganda messe in piedi dai leghisti» e per «raccontare una terra, la nostra, che non tollera l'intolleranza, la discriminazione e l'odio contro i più deboli», stanno esercitando (sia pure in modo abbastanza disgustoso) un sacrosanto diritto di espressione che può perfino costituire un monito a tutte le destre d'ogni ordine e grado affinché mantengano la propria narrazione sovranista entro i limiti della Concordia costituzionale. Ma non si può e non si deve ignorare che, nella maggior parte dei casi, l'esercizio di questo diritto si sta trasformando nella più becera negazione dell'agibilità politica e personale di Salvini o di chi per lui. Il discorso naturalmente vale anche per certe equivoche scivolate delle più miti e fantasmatiche "Sardine" bolognesi. Sotto porcesso, ora, dovrebbe finire l'antico e sempre remunerativo vizio procedurale dell'estremismo gruppettaro comunista: soffocare nella prepotenza la voce del dissenso (quand'anche fosse roca e greve) con la scusa di combattere fisicamente talune idee giudicate arbitrariamente inaccettabili alla comunità civile. Infine, il dato forse più grave e sul quale non si allarmerà mai abbastanza. Nel momento in cui la crisi pandemica assegna (inevitabilmente?) poteri speciali al governo Conte, sulla base di uno stato d'emergenza prossimo alla normalizzazione per Dpcm, il capo del primo partito italiano che insieme con Giorgia Meloni è il punto di riferimento di un'opposizione maggioritaria nella Nazione finisce in tribunale e viene bersagliato da una claque di aspiranti boia. A parti invertite, come minimo la sinistra avrebbe invocato i Caschi blu dell'Onu.

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