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Coronavirus, alle origini dei contrasti tra governo e Regioni: un conflitto mai risolto

Francesco Carella
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Mai come in questi mesi si può dire che, mentre a Roma si discute, Sagunto viene espugnata. Il nuovo Annibale si chiama Coronavirus e, come il condottiero cartaginese nel 219 a.C., si fa beffe della lentocrazia romana e demolisce, giorno dopo giorno, il sistema di certezze su cui regge la vita pubblica e privata degli italiani. La farraginosità con cui si cerca da parte del governo centrale di affrontare la valanga Covid risulta a dir poco imbarazzante. Di ora in ora si cambiano le carte in tavola, alimentando confusione tra gli operatori economici e suscitando angoscia ed esasperazione fra i cittadini. Stati d'animo che sono alla base delle violenze esplose in molte città italiane, mentre si allarga sempre di più il fossato fra l'esecutivo - incapace di fare scelte razionali - e i governatori regionali, che vorrebbero decidere in ragione della situazione sanitaria del proprio territorio ma che non hanno gli strumenti giusti per farlo.

PROBLEMA ANTICO
Forse, per capire meglio ciò che sta accadendo vale la pena di ricorrere allo sguardo lungo della storia, inquadrando l'attuale inadeguatezza di Palazzo Chigi - al netto della palese insufficienza personale del presidente del Consiglio - nel contesto di un conflitto di lunga data tra lo Stato centralizzato e le istanze diversificate dei territori. Un nodo che resta tale nonostante l'impegno profuso dalle migliori intelligenze che l'Italia abbia avuto a partire dall'Unità. Ci provò già nel 1861 il ministro Marco Minghetti, presentando un progetto federalista che rispettasse le innumerevoli diversità presenti nel giovane Regno d'Italia. Il tentativo naufragò. Amaro fu il commento dello stesso ministro che profetizzò: «Il potere accentrato potrà condurre l'Italia alla paralisi della vita democratica, se non alla dittatura». Purtroppo, nel Novecento abbiamo conosciuto sia la dittatura che qualcosa di molto più subdolo con cui siamo costretti a fare i conti ancora oggi, ovvero il blocco della decisione democratica a causa di perenni contrasti fra centro e periferia.

TENTATIVI ANDATI A VUOTO
La riflessione intorno alla possibilità di dare al Paese un'architettura istituzionale all'insegna della devoluzione dei poteri non ha mai abbandonato il dibattito politico-culturale, sia a destra che a sinistra, nel corso di quasi 160 anni di storia nazionale. Si va da ciò che scrissero nei primi anni del secolo scorso due illustri meridionalisti, quali Gaetano Salvemini e Guido Dorso, che invitavano a considerare «il federalismo come una palestra politica dove educare al principio di responsabilità sia la classe dirigente che la società civile meridionali», al pensiero "rivoluzionario" del fondatore del Partito Popolare Don Luigi Sturzo, il quale proponeva per le regioni la «piena autonomia fiscale, per una consapevole autonomia legislativa». Finanche Antonio Gramsci in una lettera scritta nel 1923, per la fondazione dell'Unità, lanciò la parola d'ordine «Repubblica federale degli operai e dei contadini», mentre due leader di Giustizia e Libertà, Carlo Rosselli ed Emilio Lussu, si dicevano convinti che la regione dovesse essere promossa, dopo la caduta del fascismo, come «luogo istituzionale più adatto, per garantire l'unità politica del Paese in forza della storia, della geografia e della lingua». Ragioni non diverse hanno ispirato i tentativi di riformare la nostra Carta (nel 2005 e nel 2014) poi falliti più per faziosità politica che per dissenso sul merito. L'unica riforma andata in porto è stata l'ambigua modifica del titolo V della Costituzione, i cui effetti devastanti si stanno rivelando in modo drammatico in queste ore.

 

 

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