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Coronavirus, il cardinale Matteo Zuppi: "Non è una maledizione di Dio. Vi spiego come sono inferno e paradiso"

Alessia Ardesi
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Il cardinale Matteo Zuppi è alto, sottile, e ha uno sguardo penetrante, che si sofferma su di te quando ti ascolta. Anche dopo cinque anni a Bologna come arcivescovo, ha mantenuto l'accento romano. È semplice e diretto, alla mano, si intrattiene volentieri con chi lo ferma - e sono tanti. È stato un prete di strada, ma sempre coltivando una solida formazione intellettuale. Parroco in Trastevere, impegnato nella comunità di Sant'Egidio, molto vicino a papa Francesco, è figlio del direttore dell'edizione domenicale dell'Osservatore Romano e della nipote del cardinale Confalonieri, che celebrò le esequie di Paolo VI e Giovanni Paolo I. L'ho seguito a Imola al convegno per il 120 anni del giornale diocesano e poi alla cena offerta da un anonimo amico del settimanale.

Cardinale Zuppi, come si immagina l'Aldilà?
«Come una piena riconciliazione con se stessi, con gli altri e con Dio. Quei tre amori che Gesù ci invita a vivere insieme e che ci aiutano a trovare la vita qui, nella vita, e che troveranno la loro pienezza nell'altra vita. La immagino come un amore senza diaframmi, senza distanza, senza i limiti e le paure, senza maschere. Senza il mio e il tuo. Una pienezza di luce in cui saremo una cosa sola con gli altri e con Dio».

Ritroveremo i nostri cari?
«Certo, e anche tutto quello che è legato alla nostra esistenza. Entreremo nel mistero, ritroveremo ogni persona, e non con indifferenza e distanza. L'inimicizia verrà ricomposta e non ci sarà più l'estraneo, l'avversario, ma sarà il Tutto, in tutti».

Gesù però dice che nell'Aldilà non ci saranno mogli né mariti, ma saremo tutti come angeli nel cielo.
«Esatto, Tutto in tutti. È qualcosa che possiamo solo intuire. Forse il senso è che vivremo una dimensione di amore lato, largo, ampio. San Paolo ha detto: "Non c'è più schiavo né libero; non c'è più uomo né donna". Significa che ci sarà una piena consapevolezza di se stessi negli altri. Se iniziassimo già adesso a volerci bene e a stare uniti, un po' del deserto che abbiamo sulla Terra diventerebbe un piccolo giardino!».

E secondo lei i nostri cari da Lassù ci guardano?
«Penso che c'è un legame che ci unisce con i nostri cari, con le persone che sono con il Signore. Che vivono e quindi intercedono per noi e che ci incoraggiano in tanti modi. Loro non sono inerti; l'amore non è mai inerte. E vivendo nell'amore si associano a quello di Dio».

Chi spera di riabbracciare nell'Aldilà?
«Tanti. Innanzitutto farmi abbracciare dal Padre; perché un figliol prodigo quale sono ha tanto bisogno di perdono e di essere abbracciato dalla misericordia del Padre. Poi chi mi ha dato la vita: i miei genitori. Mio fratello, che è morto. I tanti credenti che mi hanno preceduto, e quelle persone che ho conosciuto e non ho più visto. C'è un incontro, però, che è indispensabile: quello con i fratelli più piccoli di Gesù».

Chi sono?
«I poveri, che desidero riconoscere e spero mi riconosceranno. Sarà davvero sorprendente, come insegna il Vangelo: senza di loro non entri nella gioia. Non ci si annoierà, sicuramente».

Ha avuto paura del Covid durante il lockdown? E di morire?
«Come molti, all'inizio ho vissuto la tentazione incosciente di minimizzare il rischio. Il virus sembrava una realtà lontana da noi e le precauzioni eccessive. Poi sono arrivati i problemi reali e mi sono reso conto, vivendo con tanti preti anziani, di poter essere io un rischio per loro. La paura di morire è sana! Quando però ci domina o la ignoriamo per stare bene, ne finiamo prigionieri. Mi è stato più chiaro, in questi mesi, il significato della "Provvidenza", di un amore che accompagna e protegge. Nella tempesta mi commuove pensare che Gesù è sulla stessa barca con noi. E vogliamo salvarci da soli? Non aiutare il prossimo? Ecco il contrario della paura».

C'è un insegnamento che si può trarre da questi mesi drammatici?
«Il Covid ci ha insegnato la forza del male. Capire le cose in astratto, per sentito dire, è diverso dal viverle personalmente e capirle interiormente. Ecco, direi che la pandemia ci ha fatto comprendere come il male non sia una dimensione che riguarda gli altri, che non ci coinvolge o a cui possiamo trovare sempre un rimedio. A volte, purtroppo, il rimedio non c'è».

Nella Bibbia è scritto che la morte è nemica di Dio, una "maledizione" intervenuta come castigo per la creatura colpevole. Ma Dio è misericordioso... Forse qualcosa non torna?
«Sappiamo che solo noi possiamo sottrarci alla misericordia di Dio: questa è la nostra libertà. Che amore sarebbe se potessimo dire solo sì? Saremmo automi e non a sua immagine, quindi liberi. Quando la misericordia, che è molto più grande del nostro cuore, bussa, siamo solo noi che possiamo aprirle. È il grande mistero del male, che abbiamo sperimentato anche in questo tempo di pandemia, e della sciocca e presuntuosa complicità degli uomini. Abbiamo parlato poco della morte e anche della forza del male - certo, parlava da sola! Ma per farlo dobbiamo anche parlare alla vita. E abbiamo difficoltà».

Ci spiega meglio?
«Abbiamo creduto troppo alle nostre capacità, alla possibilità di poter controllare il male e sconfiggerlo facilmente. Una certa onnipotenza da benessere ci aveva illuso che in fondo potevamo decidere tutto noi. Invece è lui che ci sceglie. Per questo la grazia è poter scegliere noi l'amore».

In molti hanno detto che il Covid è stata una punizione divina. Come risponde?
«Dio dà la vita per noi, come fa a mandare la morte? Dio ci libera dal male, non ce lo invia, neppure per motivi, diciamo così, pedagogici, per metterci alla prova! Prende su di sé il castigo, non ce lo infligge e dice: "Nella prova io sono con te". Prende su di sé la croce, che in molti casi viene costruita proprio dagli uomini».

Come racconta l'Aldilà ai bambini?
«Loro hanno un'idea più chiara della nostra: perché sanno cosa significa l'amore, farsi volere bene e anche perdere qualcuno che ti ama. Ci aiutano a capire, ad avere una fede senza filtri e senza diffidenze. Comprendono meglio di noi, perché si affidano. E non possono fare a meno degli altri».

E l'Inferno?
«L'inferno è essere se stessi da soli, con l'orgoglio, la diffidenza, possedendo. Paradiso è perdersi nell'amore, appunto, come un bambino che trova se stesso nell'altro».

E c'è un modo per non smarrire questa fede da grandi?
«Dobbiamo almeno provarci. Altrimenti, come è scritto nel Vangelo di Marco, "Finché non diventerete come bambini non entrerete nel regno dei Cieli". Questo significa che bisogna disarmare il cuore, sintonizzarsi sull'amore che a volte appare ingenuità. Tornare a essere bambini vuol dire abbandonarsi all'amore del Padre».

Lei teme il giudizio di Dio?
«Sì, come si teme il giudizio delle persone che si amano. Ma non ne hai paura, perché sai anche che loro ti vogliono bene. Il timore è l'inizio dell'amore, come ci hanno insegnato i padri della Chiesa. E l'amore di Dio è il senso della mia esistenza».

Come trova le parole per stare vicino a chi perde una persona cara?
«Qualche volta bisogna saper scegliere il silenzio. Talora le parole sono una tentazione, possono essere banali, come ovvietà a saldi di psicologia. La consolazione può diventare scontata: "Ti passerà, non ti preoccupare, vedrai"... Una ferita nella ferita. La prima risposta è esserci, fare capire l'amor con la presenza e le tenerissime parole della fede».

Come si fa a parlare a un genitore che sopravvive al figlio?
«È molto complicato. La nostra fede cristiana è legata a un Figlio che muore, a una Madre e a un Padre che sperimentano lo stesso dolore. Quindi solo credendo si può dare un significato a qualcosa che non ce l'ha. E che può illuminare un mistero che altrimenti resta lancinante e definitivo, che toglie il senso del futuro. Poi c'è la nascita al cielo».

Cosa intende?
«Una mamma che aveva appena perso la giovane figlia un giorno mi disse: "Quando le hanno tagliato il cordone ombelicale pensavo che sarebbe morta, perché era quello che la legava alla vita. Poi siamo rimaste unite con un legame di amore". Ora c'è stato un nuovo taglio; che però per lei è un'altra nascita».

La speranza della Resurrezione può essere balsamo per ferite così profonde?
«È l'unico balsamo. Anche se la tentazione è di ridurla a un tranquillante. La morte non è mai l'ultima parola e la speranza non è un narcotico ma è il senso della vita».

Lei è stato spesso in Africa con Sant' Egidio. Le persone che ha incontrato e che non hanno nulla temono la morte?
«In Africa indubbiamente c'è un'accettazione fatalista perché è più presente e frequente nel quotidiano. Chi vive in quello luoghi ci si confronta e comprende meglio il miracolo benedetto della vita».

E gli "ultimi", che sono per strada, ai margini, come la vivono?
«Ognuno nel proprio modo e tutti, in realtà, ne abbiamo paura. Qualche volta - nella solitudine, nell'abbandono - può sembrare addirittura una liberazione, come quando il peso del dolore è troppo grande. Davanti alla morte però ci ritroviamo tutti ultimi, perché non sappiamo dove aggrapparci. Ecco perché Gesù ci dice di amarli e si é fatto schiavo di tutti. La speranza con Lui non finisce». 

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