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Il cardinale Camillo Ruini a Libero: "Anche io temo il giudizio di Dio. Cosa succede dopo che siamo morti"

Alessia Ardesi
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In questi mesi, la morte ci ha sfiorati. Ci ha portato via persone care. Ci ha spaventati, proprio perché cerchiamo sempre di esorcizzarla, di non pensarci. E ci ha fatto riflettere su quel che ci attende. Esiste l'aldilà? E com' è fatto? Ritroveremo le donne e gli uomini che abbiamo amato? Le esperienze pre-morte dicono il vero? Come si muore? E davvero si vive per sempre? «Libero» comincia oggi una serie di interviste a uomini di fede e a grandi laici. Per primo tocca al cardinale Camillo Ruini. La prossima settimana sarà la volta del maestro Riccardo Muti.

Sul comò le foto dei genitori, Francesco - a cui somiglia molto - e Iolanda. Assieme a quelle con Papa Wojtyla, Ratzinger e Bergoglio. Dalla finestra si intravedono gli scorci della cupola di San Pietro. Inizia tra queste immagini e il suo sguardo intenso il dialogo con il cardinale Camillo Ruini.

Lei ha scritto quattro anni fa un libro dal titolo "C'è un dopo?". Qual è la sua risposta a questa domanda?
«Un dopo c'è. E, come ci ha promesso Gesù Cristo, questo dopo è il regno di Dio, la vita eterna. Nella speranza di non mancare per nostra colpa questo traguardo che supera ogni nostro desiderio».

Come se lo immagina il dopo?
«Non possiamo immaginarlo perché non è di questo mondo. Sappiamo però qual è la sua sostanza: essere per sempre con Dio e con Gesù Cristo».

Lei ha paura di morire?
«Certo, ho paura della morte e del giudizio di Dio. Ma più forte della paura è la fiducia nel Signore, la speranza nel suo amore ricco di misericordia».

È diverso l'approccio alla morte di un prete da quello di un ateo?
«Tra un credente e un ateo l'approccio è chiaramente diverso. Per l'ateo con la morte finisce tutto, per il credente la morte è l'ultimo e definitivo passaggio che ci mette di fronte a Dio».

Come lo racconterebbe a un ateo?
«Premetto che più delle parole conta la testimonianza della vita. Gli direi che il desiderio di vivere che portiamo dentro di noi non ha limiti; ed è un indizio che non siamo fatti solo per questo mondo. Poi porterei l'attenzione sulla resurrezione di Cristo. Cristo risorge come primogenito tra molti fratelli».

La descrizione che ha fatto Dante dell'Inferno, del Purgatorio e del Paradiso quanto si discostano dalla sua idea?
«Dante ha scritto un poema immortale ed era un profondo credente, con un'ottima preparazione teologica. Condivideva però, inevitabilmente, l'immagine del mondo del suo tempo. Che non è più la nostra. Oggi, come le accennavo, dobbiamo lasciare da parte l'immaginazione. Il Paradiso è l'essere per sempre con Dio e con Gesù Cristo. E anche con tutti i nostri fratelli giunti alla salvezza. Il Purgatorio è l'essere purificati attraverso l'incontro con Dio. L'Inferno è la separazione definitiva da Dio e quindi la perdita di ogni senso della nostra esistenza».

Come si trovano le parole per i genitori che sopravvivono ai propri figli?
«È la situazione più difficile, in cui ogni parola viene meno. Da qualche anno sono l'assistente spirituale dell'associazione "Figli in Cielo", che riunisce le famiglie che hanno vissuto la tragedia della perdita di un figlio. Da loro ho imparato molto. Una volta all'anno tengo per i genitori una meditazione sulla speranza nella vita eterna. L'unica capace di confortarli davvero».

Avrà ascoltato tantissime storie difficili dai genitori di questa associazione. Me ne può raccontare una?
«Ad esempio quella della fondatrice di "Figli in Cielo", Andreana Bassanetti. Sua figlia è morta suicida molto giovane. Andreana, che prima non era religiosamente impegnata, da questa disgrazia ha ricevuto le forze per diventare una autentica testimone, ricca di zelo apostolico».

Molto tempo fa lei dovette comunicare a una mamma la morte del figlio adolescente, per un incidente in moto. E la madre, dopo qualche istante di silenzio, le disse: 'La Madonna ha sofferto di più'. Tanta fede interrogò anche un giovane prete come era lei allora?
«Certamente, o meglio, più che interrogarmi, la fede di quella mamma ha aiutato la mia: un aiuto che valeva più di molte parole».

Durante il lockdown la paura ha fatto pensare alla morte tantissime persone. Ma non si poteva andare in Chiesa a chiedere supporto a un prete. La chiamavano per una parola di conforto?
«No, ma tenga conto che io vivo molto ritirato anche per le mie condizioni fisiche. Qualcuno è venuto alla messa che celebro ogni mattina nella mia cappella».

Nelle zone più colpite infermieri e medici hanno potuto dare l'ultima benedizione. Per un credente e i suoi familiari non poter avere un funerale è stata una dura prova. Si poteva fare diversamente?
«Fare diversamente non era facile. Adesso si può celebrare la messa per un defunto alla presenza dei suoi familiari: spero che molti lo chiedano».

Lei ha avuto paura?
«Finora ne ho avuta poca. Adesso incomincio ad averne di più per l'aggravarsi della situazione anche a Roma, la città in cui vivo».

Il giudizio Universale: lo teme?
«Certamente, come temo il giudizio di Dio alla mia morte».

E dove va l'anima in attesa del giudizio finale?
«Nell'aldilà non c'è un tempo come nel nostro mondo. Perciò non c'è una vera e propria distanza temporale tra giudizio particolare e giudizio universale. A ogni modo, secondo l'insegnamento della Chiesa, l'anima già prima della fine della storia e della resurrezione dei morti, una volta purificata dai peccati, entra nella vieta eterna. Oppure ne rimane esclusa per sempre. Per la fede cristiana nessuna anima muore: è stato definito dal Concilio Lateranense V nel 1513 che ogni singola anima è immortale, anche quelle malvagie».

Lei dedica un capitolo del suo libro alle esperienze pre-morte. Ma poi dice che in realtà quelle persone non sono morte e quindi la loro testimonianza non è vera.
«Più precisamente ritengo che quelle persone siano morte dal punto di vista clinico, perché avevano l'encefalogramma piatto, ma non ancora sotto il profilo biologico. La loro testimonianza è vera, dato che riferiscono esperienze che hanno effettivamente avuto. Ma non è sufficiente a provare che ci sia una vita oltre la morte non solo clinica ma anche biologica, che si verifica quando le funzioni vitali sono perdute in modo definitivo».

I sacerdoti danno sempre l'estrema unzione?
«Adesso si chiama unzione degli infermi e viene data non solo in pericolo di morte. A me l'hanno data vari anni fa, anche se stavo bene, e spero di riceverla di nuovo alla fine della mia vita terrena».

Lei ha conosciuto bene tre Papi. Che ricordo ha di Wojtyla?
«Un ricordo grande e prezioso, anzi il più prezioso di tutti i miei ricordi. Vivere per vent' anni a stretto contatto con un grande Santo, che era eccezionalmente grande anche come uomo, è un dono impagabile. La sua morte, accompagnata da una partecipazione e commozione universale, è stata un apogeo della Chiesa cattolica».

Come interpretano la morte le altre religioni?
«Le interpretazioni sono varie. C'è però tra le religioni un consenso di fondo su qualche forma di vita, magari solo umbratile, oltre la morte. L'alternativa più corposa alla concezione cristiana è quella della metempsicosi, ossia di ripetute reincarnazioni delle anime».

Qual è la prova più difficile che deve affrontare un prete?
«Per essere in grado di rispondere preferirei riformulare così la domanda: qual è la meta più impegnativa che un prete deve porsi? La risposta è quella formulata da San Paolo verso la fine del secondo capitolo della lettera ai Galati: "Non vivo più io, ma Cristo vive in me"».

È vero che anche durante dei pranzi, o nei momenti considerati meno opportuni, per rompere un tabù o per una vena scherzosa che le appartiene, lei parla della morte? Così da risvegliare la speranza?
«È vero che facevo così da giovane sacerdote. Adesso non posso più permettermelo. Ma provoco un effetto simile quando dico che "alla mia età è ora di prepararsi alla morte».

La speranza cristiana. Lei l'ha definita un dono. Ma questo significa quindi che chi non ce l'ha non ne è stato beneficiato?
«La speranza che nasce dalla fede è un dono di Dio. Ma si tratta di un dono che, come dice il Concilio Vaticano II, nei modi che Dio solo conosce è offerto a tutti».

Come si può trasmettere la speranza?
«Non è in nostro potere trasmetterla perché la speranza è dono di Dio. Possiamo però collaborare in qualche modo con Lui, con Dio, attraverso la nostra preghiera e la nostra testimonianza di credenti».

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