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Riccardo Muti a Libero: "Dio c'è, me l'ha detto Mozart. Perché un musicista non può non essere credente"

Alessia Ardesi
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Riccardo Muti ha già fatto il presepe, anzi, non l'ha mai disfatto. «Da questa parte c'è il male, la dimensione della materia, con il cibo, gli animali, e sì, pure i musicanti. Dall'altra c'è il bene, gli angeli, le creature spirituali. E c'è Benino, l'uomo addormentato che sogna il presepe». Nel giardino di casa - fiori, limoni, profumo di gardenie bianche curate da Cristina, la moglie, il cane maltese Cooper che gioca - pare quasi di essere già in paradiso.

Maestro Muti, la morte non le fa paura?
«No. Né potrebbe. Quando ero piccolo andavo spesso al cimitero a vedere i fuochi fatui, le fiammelle azzurrine che scaturivano dalle fosse. Mia mamma Gilda mi rammentava di continuo la fine delle cose, se non mi addormentavo subito mi diceva: "Ti viene a prendere la morte!". All'inizio della Quaresima giravano per Molfetta due o tre incappucciati che annunciavano l'arrivo della penitenza. Ho fatto in tempo a conoscere Giustina, l'ultima prefica, stipendiata per gridare le lodi del defunto in mezzo alle donne tutte vestite di nero. Il Sud era intriso di questa convivenza con la morte, che è quasi un'entità fisica: come fai ad averne timore? Sono cresciuto tra due "memento mori"».

Quali?
«Sulla torre dell'orologio di Molfetta, che domina la via dello struscio, è inciso: Mortales vos esse docet quae labitur hora, l'ora che scorre vi insegna che siete mortali. E nella "chiesa della morte" c'è un'invocazione dei frati alla dea Libitina, la divinità romana della sepoltura, che rimuoveva le salme dei condannati e dei poveri: Hoc fratrum coetus Morti posuere sacellum ut Libitina suas tollat amica faces; l'ordine dei frati pose questo sacello alla Morte, affinché Libitina sollevi amichevole le sue fiaccole. Un connubio tra cristianità e paganesimo. Ho sempre sospettato che la radice di Libitina fosse "libido": come se ci fosse un compiacimento della morte, quasi un orgasmo».

Cosa è cambiato da allora nel rapporto con l'Aldilà?
«Sicuramente. Ad esempio non capisco gli applausi ai funerali. Sembrano un atto liberatorio, sbrigativo, come a dire: chiudiamola qui. Quand'ero piccolo, alle esequie c'era il silenzio assoluto. Al massimo, per chi se lo poteva permettere, la banda suonava le marce funebri. Il primo applauso fu quando morì Totò; ma era quello della sua città che lo ringraziava. Ricordo un altro applauso al funerale di Anna Magnani: era Roma che riconosceva in Nannarella la propria anima».

Quindi nel suo "testamento" vieterà gli applausi?
«Ho lasciato scritto a mia moglie, perché sono sicuro di andarmene per primo, che se qualcuno applaudirà al mio funerale lo andrò a trovare tutte le notti per dargli fastidio; in particolare nei momenti più intimi».

Lei ora ha scritto un libro con Massimo Cacciari, Le sette parole di Cristo, ispirato alle frasi pronunciate da Gesù sulla croce. È vero che tutto parte dalla Crocifissione di Masaccio?
«L'idea nasce da Cacciari. Aveva saputo della mia passione per questa tavola di Masaccio, che abbiamo messo in parallelo con le sonate di Haydn, il compositore che tradusse in musica le ultime parole di Gesù».

Cosa l'ha colpita del dipinto?
«Tutti i protagonisti, la Madonna, Cristo - che pare senza collo -, la Maddalena e Giovanni esprimono il dolore. Anche se il dolore della madre è diverso da quello della Maddalena: per lei è uno strazio aver perso Cristo non solo come figlio di Dio ma come uomo, anche se non vorrei apparire blasfemo. La Maddalena irrompe quasi fuori dal quadro, con i capelli biondissimi e una veste porpora, color del sangue, che indica la passione fisica di Gesù. Mentre quella di Maria è una sofferenza racchiusa in se stessa».

C'è molta umanità nella sua descrizione. E nella musica di Haydn?
«Lì Cristo avverte il suo limite di essere umano. Ha sete, invoca il Padre, chiede perché l'ha abbandonato. Poi tutto si sconvolge con un terremoto che distrugge ogni cosa. In due minuti di musica esplosiva tutto viene bruciato, come se la terra fosse più potente del cielo. C'è un solo momento - "Oggi sarai con me in paradiso" - in cui la musica di Haydn sembra innalzarsi come Cristo che solleva gli occhi verso un mondo lontano, dove noi tutti, anche i non credenti, pensiamo di trovare il nostro riposo».

Ma lei è credente?
«Vengo da una famiglia cattolica. Sono cresciuto nella fede cristiana. Sono stato battezzato, ho fatto la comunione e la cresima. Ho dato ai miei figli i nomi dei grandi santi: Francesco, Domenico, Chiara. La Chiesa ce l'ho dentro. Sono credente, come uomo e anche come musicista».

Perché come musicista? «
Una persona che si accosta di continuo ai capolavori difficilmente può non esserlo. Durante il lockdown mi sono messo a studiare la Messa solenne di Mozart. Non l'avevo mai affrontata prima perché la trovavo una pagina altissima che appartiene a un mondo metafisico, sovrumano. E io mi sentivo totalmente inadeguato. La porterò quest' estate al festival di Salisburgo, dove dirigerò per la cinquantesima volta. Sarà anche un modo per festeggiare i miei ottant' anni».

La musica l'ha aiutata a credere nella vita dopo la vita terrena?
«Non si può eseguire il requiem di Mozart, di Verdi, di Cherubini, non si può chiedere "Requiem aeternam dona eis, Domine" - l'eterno riposo dona loro, Signore - senza sentire la necessità di sperare che alla fine ci sia davvero un riposo eterno. Questo non significa che ci spunteranno le alucce e svolazzeremo nell'aria come angeli. Vuol dire che dentro di noi c'è un'energia cosmica che può liberarsi e tornare ad espandersi nell'universo. Non è un discorso scientifico; ma sono convinto che abbiamo un'anima, un'aura, che non finirà».

Come ha affrontato la morte di una persona a lei cara?
«Quando mia mamma esalò l'ultimo respiro, ho avuto la netta sensazione che dalla bocca si liberasse qualcosa che aveva dentro; come se soffiasse via l'anima. Fino all'estremo momento il corpo ha una sua levità, una sua leggerezza che sono date dal pensiero, dall'anima. Quando arriva la morte invece il corpo diventa pesantissimo, come marmo».

Quindi non finisce tutto con la morte?
«Se si pensa questo, come si fa a sentire il senso della grande musica? Verdi nel Requiem fa gridare al soprano "Libera me, Domine, de morte aeterna" - liberami, Signore, dalla morte eterna. Non so se Verdi avesse fede nell'Aldilà. Di sicuro in tutta la sua musica c'è un anelito all'infinito. La maggior parte delle sue opere nel finale sono rivolte al cielo. Nel duetto tra Carlos ed Elisabetta di Valois del Don Carlos si dice: "Ma Lassù ci vedremo in un mondo migliore". E nell'Aida sono Radamès e la sua amata a cantare: "Per noi si schiude il ciel". Certo, Verdi era un mangiapreti; ma questa è un'altra cosa».

Perché un mangiapreti?
«Da ragazzo ha fatto il chierichetto nella parrocchia di San Michele Arcangelo a Roncole; non a caso poco tempo fa sono intervenuto per aiutare il restauro di questa chiesa che cadeva a pezzi. Verdi stesso, che doveva avere un temperamento vivace, raccontava che un giorno un prete si scocciò per le sue intemperanze e gli diede una pedata facendolo rotolare sugli scalini dell'altare. Giuseppe fuggì via maledicendo il sacerdote: "Che ti colga una saetta". Un anno dopo il prete morì colpito da un fulmine. E quando Verdi ricordava questo episodio aggiungeva: "Fu una cosa giusta"».

Come si immagina l'Aldilà?
«Non me lo immagino. I bambini pensano al paradiso senza nuvole, ai fiori, ai cesti con la frutta; ma nessuno pensa alla Resurrezione. Non credo che ci ritroveremo. Però penso che siamo fonti di energie sonore. Altrimenti come avrebbero potuto Verdi e Mozart scrivere tanta musica così bella? Esiste un'armonia di suoni nell'Universo; e i raggi sonori che lo attraversano, attraversano anche noi. La voce di Dio esiste. Anche se alcuni uomini restano del tutto sordi».

Davvero non ritroveremo i nostri cari?
«La resurrezione ci deve essere; ma non credo ci sarà un'altra vita. Il mio cervello non arriva a immaginare l'esistenza dei campi Elisi. Anche perché, se assomigliano a quelli che mise in scena in Orfeo e Euridice un pessimo regista al Festival di Salisburgo, sarebbero dei giardini in cui gli uomini e le donne camminano avanti e indietro, come alla terme di Montecatini. Con il bicchiere di acqua curativa in mano e vestiti di stracci. Ma se questo deve essere il gaudio dell'eternità celebrato dalla musica celestiale di Gluck, viva l'inferno...».

Nell'Aldilà ci sarà musica?
«Non credo, perché tutti i direttori di orchestra si azzufferanno. Anche i compositori litigheranno perché ognuno vorrebbe che fosse eseguita la propria opera. C'è un aneddoto tra due direttori di orchestra, Carlos Kleiber e Sergiu Celibidache, che lo conferma. Kleiber decide di mandare una lettera a Celibidache, noto per i giudizi sprezzanti che esprimeva pubblicamente contro i colleghi, fantasticando il momento in cui, nell'Aldilà, li re-incontrerà e lo affronteranno. A partire da Toscanini, che lui aveva definito una "fabbrica di note"».

E lei vorrebbe incontrare Toscanini?
«Lo ammiro moltissimo ma preferirei di no. Con il carattere che aveva, non vorrei». Elie Wiesel - filosofo e premio Nobel per la pace, ndr - spiega la musica attraverso la visione di Giacobbe. Ce la racconta? «Quando nel sogno a Giacobbe apparvero gli angeli, prima di risalire in cielo si dimenticarono una scala. Quella è la scala musicale, che ci fa ascendere dalla terra al cielo».

Le piace questa immagine?
«Sì, mi piace l'idea che la scala musicale venga da una dimenticanza degli angeli. Dà poesia e nobiltà alla nostra arte di esecutori che sta diventando sempre meno arte e più artificio. Dirigere è, come diceva Toscanini, una cosa che ogni asino può fare. Ma fare musica coinvolgendo anche duecento persone tutte insieme è un'altra cosa».

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