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Giulio Tremonti contro il governo: "Fanno ridere, ma la democrazia è sotto attacco. Tensioni tra Lega e FI? Tutto sotto controllo"

Francesco Specchia
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Giulio Tremonti, aguzzo come al solito, è in modalità filosofica. Quanto c'è di nobile e quanto di letterariamente avverso nel Recovery Fund? Perché i mitici 750 miliardi Ue vengono legati da Ursula von der Leyen al concetto di "stato di diritto"? Perché il veto di Ungheria e Polonia - e della Slovenia, più tiepidamente- sta bloccando gli aiuti post-Covid? Chi ha ragione tra i conservatoristi ad oltranza e l'onda liberal che sommerge l'Europa? Queste domande attraversano il presidente dell'Aspen Institute, il pregiato economista, nel momento in cui l'economia (italiana) rischia di implodere.

Professor Tremonti, che cos' è questo braccio di ferro tra l'Unione europea e i tre paesi dell'est che non vogliono subordinare eventuali violazioni di diritti civili all'erogazione del Recovery?

«Le premetto che il collegamento che è stato stabilito a partire dal Parlamento Europeo tra i fondi del Recovey Plan e lo stato della "democrazia" come dovrebbe essere in Polonia, Ungheria e Slovenia -nel cuore dei paesi dell'allargamento- ricorda, se pure in piccolo, lo spirito di Versailles con Bruxelles al posto di Versailles, coi 14 punti di Wilson, il capolavoro dello "zelo democratico" che ha portato alla seconda guerra mondiale. Naturalmente il tutto su scala minore».

Naturalmente. Ma, constatato che lo stesso premier ungherese Orban, ieri, ha fatto capire di essere aperto a «molte soluzioni possibili; è solo questione di volontà politica», lei come la vede?

«Io vedo quello che il Parlamento Ue definisce "mechanism of democracy", poi ancora Rule of law, e fondamental rights: constato che la democrazia è fatta di diritti classici e di diritti che confinano con l'etica postmoderna. È un meccanismo che, dato il precedente degli ultimi dictum delle Corti di giustizia, dà corpo ai diritti sulla "orizzontal family", sui generi transitori e così via. Un tipo di giurisprudenza che creerebbe imbarazzo al pur decadente imperatore Eliogabalo».

Eliogabalo a parte, lei mi sta dicendo che si rischia di subordinare a concetti strettamente etici e -diciamo - eccessivamente progressisti la semplice erogazione di un fondo comunitario seppur importante?

«Questo è il merito. Il metodo invece è lo scambio tra una politica giusta - quella fatta con gli eurobond da me da sempre proposti- che rischia di essere bloccata o ritardata dalla tecnica dello scambio-ricatto. Fino al paradosso evidente nello scritto di Soros (sul Sole 24 Ore, ndr) secondo cui sarebbero Ungheria e Polonia a ricattare Bruxelles e non viceversa. Se entri nel circuito del ricatto chi ha cominciato per primo non ne esce. L'anomalia è il tentativo di monetizzare la democrazia: lo scambio tra soldi e diritti. E anche tra sentimenti e risentimenti. A Soros si deve opporre l'oggettivamente superiore Camus che nel '55, in una lezione ad Atene sul Futuro della civiltà europea faceva appello agli individui superiori capaci di dominare i propri risentimenti. In tempo di peste Camus batte Soros, due a zero palla al centro».

Però, perdoni. Senza citare Bobbio o Tocqueville che legavano i diritti civili alla democrazia, per essere terra terra, perché mai la Ue non dovrebbe correggere anomalie nella democrazia dei suoi stati membri, se in fondo li finanzia?

«Forse è il caso di fare un discorso sulla democrazia. Che non è un prodotto da esportazione o da imposizione: è un processo che non si sviluppa dall'alto o da fuori ma dal basso e dall'interno. Ancora qualche decennio fa la democrazia in Europa era eccezione e non regola, fuori essendo Grecia, Portogallo, Spagna, mezza Germania, tutto l'est. Polonia, Ungheria e Slovenia sono importanti paesi dell'allargamento fatto per far crescere la democrazia, un processo che si è sviluppato negli anni e con forza ed evidenza crescenti».

Però, perdoni. Ma, dal rifiuto di Orban a non accettare i migranti degli altri stati (pur pretendendone i soldi dal fondo di coesione) fino alla posizione sull'antisemitismo, qualche dubbio di civiltà, lì, può venire.

«La democrazia, lì, è ancora incompiuta. Non solo nel campo dei diritti postmoderni ma anche in quello dei diritti dei lavoratori. La scelta unitaria di chiudere il rapporto di lavoro viene duramente sanzionata, ci sono problemi col pagamento degli straordinari: soprattutto di questo dovrebbe occuparsi Bruxelles. Ma le faccio notare che qui si parla di un'Unione che è partita dall'economia per arrivare ai diritti. Diciamo che se il fine è giusto il mezzo è sbagliato. Con questo, io non faccio l'avvocato dei paesi dell'est e per inciso avendo proposto nel 2003 gli Eurobond con cui l'Europa si mette finalmente dal lato giusto della storia, non credo di essere sospettabile di antieuropeismo».

Mai detto il contrario. Ma, a questo punto, data l'urgenza del Recovery e del fondo Next Generation Ue (su 38 miliardi di Legge di bilancio, almeno 15 li abbiamo messi in conto all'Europa), come la sblocchiamo?

«Per mia esperienza troveranno un'exit strategy, una soluzione di compromesso, tipo "fermare l'orologio" o "scindere le clausole". Per il resto, è vero: il ritardo nuoce gravemente all'Italia, basta guardare il bilancio in discussione che punta sui soldi Ue come fossero attuali e non come se fossero un future sul 2021 come minimo».

Mi pare che lei leghi anche la nostra finanziaria al concetto di democrazia, o no?

«Il cuore della democrazia, la sua origine storica, è nel bilancio pubblico come deve essere votato dai Parlamenti. Ora inizia la discussione sul bilancio italiano: qui abbiamo una sola Camera chiamata a votare e un solo mese di tempo per discutere. Di solito la sessione di bilancio vede l'assalto da parte del Parlamento, qui l'assalto l'ha fatto il governo. Come è evidente in un testo popolato da un vastissimo bestiario di interventi, dall'articolo per Cinecittà alla costituzione di nuove società di dubbia utilità (come una società per gli alberi in città). Nella parte sostanziale si prevedono fondi per interventi ma regolamenti attuativi che poi sono normalmente assenti vanificano gli interventi stessi».

Certo. Per non dire dei decreti attuativi mancanti sulla maggioranza delle leggi sulle infrastrutture; dell'aumento del reddito di cittadinanza e non delle connesse politiche attive del lavoro; dei bonus a pioggia. Non ci vede una mancanza di visione a lungo termine (quantomeno)?

«La macchina legislativa ha riempito il serbatoio con la benzina del debito pubblico ma così si è cappottata in garage. In generale, nel testo delle finanziarie che va in Senato si riflette il caos iniziato da marzo: un chilometrico serpente legislativo che si strangola nelle sue stesse spire. Come la gestione della pandemia è stata caotica nel conflitto tra diversi "poteri", tra infiniti Dpcm, così è per la gestione dell'economia: coi decreti che inseguono i dpcm, siamo già al terzo decreto Ristori. Un decreto al giorno toglie l'elettore di torno».

Avverto una sottile ironia, professore.

«Nel Palazzo è in atto un'orgia legislativa ma è così che si distrugge, via via, la certezza del diritto senza la quale i regimi finiscono, anche quelli parlamentari. La Rivoluzione francese si basava sui cahiers de doléances che volevano un re, una legge, un ruolo d'imposta. Il re non gli diede ascolto e perse la testa. Forse qui c'è una metafora».

Da Gentiloni, ministro delle Finanze Ue, arrivano caveat sul debito pubblico italiano. Ci avverte che stiamo facendo troppo debito e spesa corrente.

«Col Trattato di Maastricht la media del debito europeo era il 60%. Al principio degli anni '90 l'Italia era al 120%, nel 2008 siamo scesi quasi al 100%. Oggi siamo oltre il 160%, la media europea post Covid è intorno al 100%. È una storia che più o meno si ripete. Nel '92 ci fu autoimposta una finanziaria terribile, ma allora fu una scelta responsabile del governo Amato fatta in alternativa al dissesto. Fra poco sarà necessaria una scelta dello stesso tipo ma non so con quali risultati».

Amato ci entrò nei conti correnti. Lei, ora, si riferisce ad una patrimoniale, come paventato dal ministro Provenzano?

«La patrimoniale è una cazzata abissale. La chiedono le élite finanziarie e la pagano i poveri. Il trasferimento di una quota enorme di denaro dai conti bancari degli italiani fa saltare le banche e di conseguenza il risparmio stesso. Sugli immobili dovresti prevedere che il cittadino che non può vendere l'appartamento a mercato saturo, la paga con la dazione in natura delle porte e le finestre al Tesoro. E in ogni caso 5/10 punti di Pil in meno non fanno la differenza».

Si parla di debito pubblico esplosivo. Mario Draghi citò una differenza fondamentale tra debito buono (per le infrastrutture, per esempio) e debito cattivo improduttivo. Lei è d'accordo?

«Il debito eccessivo può anche essere meno eccessivo se è produttivo, è la Golden Rule di cui si parla da decenni in Europa, non è solo Draghi. Nel caso italiano ci sono fortissimi dubbi sugli effetti produttivi ma c'è una certezza di una spesa corrente tutto fuorché produttiva, Fare debito è drammatico, fare gli incentivi per i monopattini è comico. Tra comica e dramma c'è una qualche rivelatrice suicida differenza».

Lei inventò la coalizione Lega/Forza Italia. Ora la Lega non solo accusa Berlusconi di inciuci col governo ma si prende pure tre parlamentari transfughi azzurri. Come finirà?

«Dico solo che orale elezioni sono lontane, e che sono le prospettive di una vittoria che tengono unite le coalizioni. Passerà anche questa. L’alleanza tra Forza Italia e Lega nasce con la devolution e con la scoperta che nella vecchia Costituzione c’era scritto “altre competenze potranno essere aggiunte alla competenza delle Regioni”; è stato un processo molto lungo e costruttivo. Se allora superammo questa questione essenziale, ora veri problemi non ne vedo…»

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