Rapporto Censis

Filippo Facci, il rapporto Censis fotografa una tragica realtà: "Metà degli italiani vuole tornare alla pena di morte"

Filippo Facci

Gli italiani si affacciano virtualmente dai balconi ma non cantano più l'inno di Mameli, e non rassicurano i passanti dicendo che finirà bene: ma invocano la pena di morte e poi rientrano in casa spaventati, anche perché fa freddo. È la più brutta Italia di sempre (dopoguerra permettendo) ed è quella che risulta fotografata dal 54° «Rapporto sulla realtà sociale del Paese» a cura del Censis, uno degli istituti più seri che ci restano. La parola chiave di questo Rapporto purtroppo è «morte», intesa come sfondo e timore del Coronavirus ma anche come impennata dei favorevoli alla pena capitale (il 44 per cento degli italiani, quasi uno su due) con una morale finale che lo storico direttore del Censis, Giuseppe De Rita, ha cristallizzato in uno slogan che rispolvera un tratto storico della nostra psicologia collettiva: «Meglio sudditi che morti».

C'è pure, si diceva, il «meglio morti che in galera» rispolverato per chi compia dei reati ritenuti abietti: che non è una conseguenza legata al cinismo del Paese che invecchia, ma all'apparente ignoranza e maggior spavalderia «da social» nell'invocare la soppressione della vita altrui: lo dimostra che le percentuali più alte - spiega il Censis - sono tra i 18-34enni, forse i più ignari non tanto delle lezioni di Cesare Beccaria, quanto dei semplici dati sull'effettiva deterrenza della pena di morte nei vari Paesi del mondo: tra i Paesi che l'hanno abolita e quelli che la mantengono, i più pericolosi continuano a risultare quest' ultimi, con tassi di omicidi addirittura in crescita.

Ma l'improvvisa domanda di pena di morte, da noi, ha più l'aria di un riflesso che di una riflessione: «C'è un rimosso in cui pulsano risentimenti antichi e recentissimi di diversa origine, intensità, cause», si legge nel Rapporto, «e non sorprende, quindi, che persino una misura assolutamente indicibile come la pena di morte torni nella sfera del praticabile». Insomma, alla fine c'è un Paese impaurito e con un tessuto sociale sfilacciato. Nel 2017 c'era l'Italia del rancore, con la politica che già inseguiva i like; il 2018 era l'anno di un'Italia severa col migrante e con le sue colpe vere o non vere; il 2019 invece era un anno di incertezza e di sfiducia: così il 2020 è diventato l'anno del terrore di un virus (vero) che a sua volta ha innescato una malcelata paura del futuro.

SOCIETÀ CIVILE?
Da qui una società civile al lumicino. Il 38,5 per cento si dice pronto a rinunciare ai propri diritti civili per un maggiore benessere economico, quindi accetta dei limiti al diritto di sciopero e alla libertà di opinione e soprattutto di circolazione. Il 77,1 per cento chiede pene severe per chi non indossa le mascherine di protezione o non rispetta il distanziamento o i divieti di assembramento. Il 76,9 per cento è convinto che chi ha commesso i principali errori, nell'emergenza, siano i politici o i dirigenti della sanità o altri, e pensa che debbano pagare per gli errori commessi: ma in concreto gli italiani non fanno nulla perché ciò accada, si tengono questo governo come ci si tiene un'herpes.

Il 56,6 per cento, poi, chiede il carcere per i contagiati che non rispettino le quarantene, e il 31,2 per cento addirittura non vuole che vengano curati o vuole che lo siano in coda agli altri. Insomma, la socialità è ai minimi storici, e la tensione «securizzatrice» non ha prodotto solo un crollo verticale del Pil per via di politici unanimemente riconosciuti come incapaci, ma ha imbolsito il già scarso orgoglio civico e democratico: il 57,8 per cento è evidentemente disposto a rinunciare alle libertà personali in nome della tutela della salute collettiva, delegando senza problemi le decisioni su quando e come uscire di casa, su che cosa è autorizzato o non lo è, sulle persone che si possono incontrare e sulle limitazioni alla mobilità. Borbottanti e incattiviti, ma sudditi, proni a un re che non c'è: «Privi di un Churchill a fare da guida nell'ora più buia, capace di essere il collante delle comunità», si legge, «il nostro modello individualista è stato il migliore alleato del virus, unitamente ai problemi sociali di antica data, alla rissosità della politica e ai conflitti interistituzionali».

I NON GARANTITI
Non resta che accendere i riflettori, come fa il Censis, su problemi che già conoscevamo ma che si sono ora accentuati, al punto da apparire sottovalutati: mai così profonda si è manifestata la frattura tra i garantiti e i non garantiti, che in questa fase temono la discesa agli inferi della disoccupazione. Pagano il conto in particolare giovani e donne: per loro sono stati già persi quasi 500mila posti di lavoro. Anche nel giorno in cui il Covid fosse imbrigliato, solo il 13 per cento sarebbe disposto a rischiare per aprire un'impresa. Resta il luogo comune, ormai accettato come un fato immutabile: viviamo il momento peggiore possibile con il governo peggiore possibile, non sappiamo quanto doloso nel suo agire - perché il dolo implica intelligenza - e nel suo terrorizzare gli italiani ogni giorno di più. È questa la cosa che fa più paura: a comandare sono i peggiori ma neppure lo sanno, e fanno danni irrecuperabili, ma forse non lo fanno neanche apposta.