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Dario Franceschini, "gli tocca il lavoro sporco di Giuseppe Conte": caccia ai responsabili, i numeri non bastano

Salvatore Dama
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I responsabili no. I "costruttori" sì. Che cambia? Niente. Sono sempre gli stessi, ma dandogli un nome nuovo - che non evochi fantasmi del passato - hanno tutt' altra dignità. Addirittura Luigi Di Maio li chiama «costruttori europei». Attribuendo loro una dimensione internazionale: champagne! Ma chi sono? Si tratta dei senatori e deputati che devono surrogare i voti di Italia viva in Parlamento per permettere a Giuseppe Conte di tirare avanti. Soprattutto a Palazzo Madama, dove i numeri sono tradizionalmente risicati. È una truppa eterogenea. Formata da eletti all'estero, fuoriusciti in polemica dai partiti di appartenenza e grillini sfanculati per varie ragioni di infedeltà al verbo del fondatore. Che adesso se li va a raccogliere con il cucchiaino.

Il problema è che non bastano. Cinquestelle, Pd, Leu e il gruppo delle Autonomie, da considerare integrato alla maggioranza, mettono insieme 141 voti. Ne mancano almeno una ventina. Più dei renziani, che sono 18. E questo è facilmente spiegabile. Perché, dal gruppo Misto, già oggi arrivano un tot di voti a sostegno dell'esecutivo, quando ce n'è bisogno. Il Maie, per esempio, è già un partner stabile. Gli ex grillini decidono volta per volta. Insomma, ci sono due problemi da risolvere. Il primo è quello di dare un nome e una ragione sociale al branco, anche per tranquillizzare il Quirinale, che non vuole un esecutivo appeso ai capricci dell'ultimo senatore; il secondo è di allargare la base dei «costruttori» anche a un tot di esponenti del centrodestra, altrimenti l'operazione non ha senso. Numericamente.

 

 

La prima questione dovrebbe essere risolta con Riccardo Nencini, che aveva già «prestato» il suo simbolo, il Psi, a Matteo Renzi per permettergli, regolamento alla mano, di formare un gruppo parlamentare ex novo. Nencini si è già sfilato dai renziani e si è detto pronto ad aderire ai «costruttori». Il secondo tema è il vero nocciolo della questione: davvero ci sono senatori del centrodestra disponibili a sostenere Conte? Ieri, durante un vertice di coalizione, si sono passate nuovamente in rassegna le truppe. Gli osservati speciali sono Lorenzo Cesa, Giovanni Toti e Maurizio Lupi. Tutti hanno assicurato che non intendono fare il salto della quaglia. Specie l'Udc, che controlla "ben" tre senatori, attualmente tutti iscritti al gruppo di Forza Italia. Le pressioni però sono continue, asfissianti. Anche perché, se non riesce il giochino dei responsabili, la legislatura inizia a viaggiare su un piano inclinato.

Destinazione: voto anticipato a giugno. Il Pd, che prima aveva una certa puzza sotto al naso, adesso evoca i "costruttori" come i nuovi messia. «Le maggioranze si costruiscono in Parlamento e non c'è niente di male nel dialogare alla luce del sole con forze politiche disponibili a sostenere un governo». Lo dice Dario Franceschini nel corso del vertice dei dem. La speranza che cova nelle testoline democratiche è che Italia Viva vada in frantumi e che i renziani comincino piano piano a tornare indietro, impauriti dall'isolamento in cui sono piombati dopo la mossa a sorpresa dell'ex premier, che ha lasciato cadere le aperture di Conte ritirando le sue ministre. L'ultima questione è la più importante: cosa offre il premier a tutti questi generosi senatori disponibili a salvargli il derrière? Poco o nulla, a quanto trapela. Perché l'avvocato preferirebbe non dare vita a un Conte ter, ma continuare con l'esecutivo attuale. L'unica promessa che è in grado di fare è offrire un posto in lista nel suo nuovo partito quando si andrà a votare.

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