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Giuseppe Conte, i servizi segreti alla ricerca di voti "reponsabili" per salvare il premier al Senato

Sandro Iacometti
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Ci mancavano solo i servizi. Che Giuseppe Conte in queste ore le stia provando tutte per restare aggrappato alla poltrona di Palazzo Chigi è noto. Lui e i suoi collaboratori più stretti stanno passando le giornate attaccati al telefono per cercare di raccattare quel pugno di voti che consentirebbe al premier di salvarsi al Senato ed evitare il salto nel vuoto. Le cronache, come spesso accade in queste occasioni, raccontano di chiamate improbabili, di negoziati aggressivi, di proposte indecenti, di profferte di ogni natura. Quello che non si sapeva, e ancora non si sa con certezza, è che oltre ad utilizzare banalmente il suo staff, il premier potrebbe aver sguinzagliato anche una rete di persuasori non proprio convenzionale e istituzionalmente off limits.

A mettere più di una pulce nell'orecchio è stata La Stampa, che ieri è andata in edicola con un doppio sgambetto a Conte. Il primo, diretto ed esplicito, del direttore Massimo Giannini, secondo cui ci sarebbero «senatori contattati da noti legali vicini al premier, da presidenti di ordini forensi a nome dello Studio Alpa, da generali della Guardia di Finanza, da amici del capo dei servizi segreti Vecchione, da arcivescovi e monsignori vicini al cardinal Bassetti e altri prelati vicini alla Comunità di Sant' Egidio». Il secondo, più felpato ma sostanzialmente identico, dell'editorialista Marcello Sorgi, che ha criticato Conte per aver delegato il reclutamento dei responsabili a «figure improprie come cardinali, generali della Finanza vicini ai servizi segreti, avvocati in odore di massoneria».

 

 

 

 

Ora, passi per le gerarchie ecclesiastiche, da sempre coinvolte nelle beghe politiche, e per lo Studio Alpa, in cui peraltro il premier sostiene da anni di essere stato solo un inquilino. Ma le Fiamme Gialle, gli 007? La vicenda qui si ingarbuglia. Anche perché tra le varie accuse lanciate da Matteo Renzi all'indirizzo di Conte c'è proprio quella di voler tenere a tutti i costi per sè la delega per i servizi segreti, cosa che dal 2007 (anno della riforma) ad oggi, ha fatto solo Paolo Gentiloni, giustificandosi con l'approssimarsi della scadenza elettorale.

La soffiata sull'utilizzo delle "barbe finte" per i suoi comodi si incastrerebbe perfettamente anche con i numerosi retroscena che descrivono Conte legato da un rapporto strettissimo a Gennaro Vecchione, ex generale della Gdf, nonché capo del Dis (il Dipartimento delle informazioni per la sicurezza che controlla i servizi interni ed esterni Aisi e Aise) confermato qualche mese fa per altri due anni dopo un blitz del governo molto discusso (è stato infilato in un decreto anti-Covid prima dell'estate) sui criteri di proroga del mandato. E il tassello, a voler proprio essere maliziosi, si sposa anche con la narrazione, molto in voga nelle ultime settimane, della creazione di una vera e propria struttura di potere all'interno delle istituzioni, anche grazie alla nuova Fondazione per la cybersecurity, che dovrebbe costituire l'asse portante per una formazione politica personale che di qui a poco potrebbe vedere la nascita.

Palazzo Chigi ha ovviamente liquidato tutte le ipotesi circolate ieri, e in particolare quelle che riguardano l'intelligence, come «gravissime insinuazioni destituite di ogni fondamento». Ma i renziani, invece, vogliono andare fino in fondo. Il deputato di Italia Viva, Michele Anzaldi, ha chiesto di convocare subito il Copasir (la commissione di controllo sui servizi). Mentre Renzi ha ribadito che lasciare al premier la delega «non rispetta le forme democratiche». Si rischia, ha aggiunto, di «finire come con Trump». 

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